Nella tela del Ragno, parte 3

Bentornati all’appuntamento narrativo per spiegare l’ambientazione di Vampire The Requiem, con la conclusione del racconto che vedeva come protagonisti i gemelli Marinus alla ricerca della propria vendetta e di Kaine Caracciolo, la suadente Gerofante di Bologna che si trova a doversi scontrare con la follia di suo fratello, il Principe.

Se vi siete persi qualche pezzo, vi rimando alle due parti precedenti qui sul sito! Sperando che vi piaccia come si concluderà la storia, buona lettura!

Sofia Starnai
Gruppo letterario Camarilla Italia
http://www.camarillaitalia.com

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Gennaio 2021, Civitavecchia.

“Ripetimi perché siamo qui, Selene.”

Kaine tamburellò nervosamente lo sportello della macchina, una vettura di seconda mano con il paraurti anteriore ammaccato, e lanciò un’occhiata alla mekhet, seduta sul cofano.

“Un incontro.”

“Con lui.”

Selene lanciò un sasso verso un punto imprecisato del parcheggio. Non c’era un’anima viva a quell’ora della notte, solo loro, due donne apparentemente giovani in attesa accanto a una macchina: se fosse passata una volante probabilmente avrebbe pensato a traffico di droga.
La Ventrue represse a stento il disagio.

“Non è rischioso?” continuò “Dopo la caccia di sangue mi aspettavo che se ne stesse buono per qualche mese.”

“Non lui. Qualcun altro lo avrebbe fatto…ma non lui.”

Il suono di un altro sasso rimbombò sull’asfalto.

“Ha detto che non saremo soli, però.”

Sondò la figura dell’altra, piccola ed esile, seduta a gambe incrociate e curva su un mucchietto di sassi: non fece una piega, limitandosi a scrollare le spalle.
Kaine sbuffò, consapevole che non avrebbe cavato un ragno dal buco dalla sua accolita, per la prima volta ignara quanto lei di ciò che sarebbe dovuto accadere in quella notte.
Dall’assalto del rifugio di Abel la danza macabra era diventata movimentata e lui, il Principe, sembrava essersi tramutato nel riflesso della paranoia.
L’aveva cercata.
Più e più volte. Ad un eliseo quasi era impazzito e aveva cercato di violentarla nella stanza delle riunioni Invictus, profanando lo stendardo della Corona d’Oro.
Kaine inizialmente se ne era distanziata per timore, paura che lui sapesse in qualche modo che nell’assalto c’entrava anche lei, cosa che poi si è progressivamente affievolita, lasciando spazio alla sua foga e desiderio di lussuria, acuite forse dallo stato di perenne ansia in cui suo fratello versava.
Aveva messo uno squadrone di Grifoni a proteggerlo durante gli elisei: quattro energumeni che gli stavano intorno formando un muro fatto di muscoli, sguardi torvi e spade lunghe.
Le sue stranezze sembravano essere aumentate ma, paradossalmente, la sua presenza agli elisei era costante, nonostante si vedesse lontano un miglio che si sentisse a disagio, per un motivo che era ignoto a tutti. Non riusciva a rimanere per una serata intera, a volte arrivava tardi, altre andava via prima, il tutto con nonchalance, mascherato con una sottile patina di cortesia, la paresi facciale che gli manteneva un ghigno standard e la rigidezza di movimenti.
Un rumore la distolse dai pensieri, alla sua destra. Repentinamente si staccò dalla portiera dell’auto e fece scivolare la mano destra nella tasca della giacca, trovando con le dita l’impugnatura del suo pugnale.
Ma fu la figura di Selene a precederla, insieme a un nome:

“Paride!”

Un ragazzetto mingherlino, di circa quindici anni, camminava verso di loro a passo abbastanza svelto, avvolto in un pesante giaccone che era palesemente più grande di lui di diverse taglie, tant’è che le maniche erano arrotolate sui polsi.

“Cugina”

Un mekhet.

Kaine lasciò andare il pugnale lentamente, facendo uscire la mano dalla tasca con naturalezza.

“Ti manda…”

Gli occhi verdi del giovane sembrarono quasi impalettarla sul posto.

“…sì.” Disse guardandosi con circospezione intorno “…e ci aspetta. Andiamo.”

Scivolarono tutti e tre in alcune vie della periferia, silenziose e fredde. Sia il ragazzino che Selene erano veloci, a tratti anche troppo: si rese conto di essere spesso indietro rispetto a loro e talvolta di faticare per raggiungerli.
Dopo diverse imprecazioni sottovoce sul sangue delle Ombre, si trovò di fronte un banalissimo palazzo, probabilmente un condominio, totalmente buio se non per qualche luce sporadica di qualche finestra.
Scesero nel seminterrato dove c’era una sola porta, massiccia; Kaine si rese conto che probabilmente era materiale a prova di proiettili, lanciafiamme o qualcosa del genere.

Tipico dei Carthiani.

La mano ossuta di Paride picchiò tre volte contro la porta, il primo colpo distanziato dagli altri due di circa due secondi.
Da una piccola feritoia comparvero gli occhi di quello che, dall’odore, era sicuramente un uomo umano. Il ragazzino gli disse qualcosa a bassa voce e, richiuso lo sportello, un pesante clangore sancì l’apertura della porta.
Tlack, tlack, tlack. Tre mandate.
Ciò che si presentò davanti a loro fu un corridoio, abbastanza angusto, che scendeva verso il basso. L’umano, un buttafuori che a stento riusciva a non incastrarsi tra le pareti, condusse il piccolo gruppo verso un’altra porta con un cartello triangolare che avvertiva la presenza di sostanze tossiche e infiammabili e un altro, immediatamente sotto, che decretava un grosso “vietato l’accesso ai non addetti.”
All’interno ad accoglierli ci fu un altro corridoio costituito da due file di scaffali su cui comparivano libri, ma anche oggetti strani di vetro, ampolle grandi, piccole, medie, grosse scatole etichettate con sigle e strumenti di cui non sapeva l’esistenza.
Differentemente da lei, guardinga e selvatica, Selene fu travolta dallo stupore, che le fece assumere sul viso già fanciullesco un’espressione da bambina meravigliata.

“Non toccare niente, cugina” l’ammonì Paride “A lei non piace che si frughi nelle sue cose.”

“Oh, su, Paride, io sono sempre benevola quando si tratta di mostrare la mia magia.”

Una voce, squillante e femminile, provenne da dietro una delle scaffalature: Kaine s’irrigidì e trattenne un ringhio.
Seduti ad un tavolo circolare c’erano due dannati, una donna e un uomo incappucciato.
La donna, nonostante avesse un camice da laboratorio, trasudava di una bellezza paralizzante che colpiva da qualsiasi punto di quel corpo perfetto che aveva: dalle gambe lunghe, ai fianchi, la curva appena visibile dei seni e il viso a forma di cuore.
Due occhi rossastri la studiarono con interesse, mentre un paio di labbra carnose dello stesso colore sillabavano un saluto che, paradossalmente, suonava incredibilmente affascinante.

Sangue Daeva, pensò Kaine soppesando la figura di quella dannata mai vista prima, senza trattenere una smorfia.

Dietro di lei c’erano altri alambicchi strani, qualcosa stava bollendo sotto quella che pareva una fiamma ossidrica, altre provette avevano delle colorazioni bizzarre che tutto faceva pensare tranne che a erbe o composti naturali che lei era solita usare nella sua “magia”.

Che razza di dannata è?

“Clotilde Barberini.”

Una mano affusolata le apparve nel campo visivo, tesa, con unghie laccate di rosso vivo. Kaine la strinse, controvoglia, guardando l’altra con circospezione.

“Ho sentito parlare molto di voi”

“Ah sì? Io invece di voi quasi per niente.”

Clotilde si lasciò andare in una risata cristallina.

“Mi avevano anche detto del vostro temperamento. In realtà non sono solita affacciarmi negli incontri sociali della danza macabra” indicò con l’indice tutta la sala “Ho altre cose da fare.”

Paride, prendendo posto su una sedia mettendovisi a gambe incrociate, intervenne:

“Clo è una…ricercatrice, ecco.”

“Sto nelle retrovie per servire il Movimento Carthiano” aggiunse lei.

La Ventrue si fece sfuggire un grugnito.

“Molto Daeva come concetto.”

Gli occhi della Carthiana ebbero un tic strano, sembrarono assottigliarsi come se volesse replicare a quella frecciata ma, in pochi istanti, tornarono rilassati e le labbra vermiglie si dispiegarono in un sorriso.
Anche Selene prese posto accanto a Paride, ma la Gerofante di Bologna rimase in piedi, immobile con le mani nella tasca del giaccone.
Con un cenno del mento indicò l’altro sconosciuto seduto.

“E questo chi è?”

Solo in quel momento si fermò ad osservarlo meglio, curvo sulla schiena e coperto dal cappuccio di una felpa grigia sdrucita sulle maniche. Sicuramente era un dannato, percepiva la presenza di un altro predatore in quella presenza, ma non vederlo in faccia le causava qualche ritrosia.
La sua domanda non ebbe bisogno di una risposta verbale: come risvegliato da un incantesimo, la figura si mosse, una mano andò a prendere il cappuccio per farlo calare sulle spalle, svelando il volto dello sconosciuto.
Kaine sobbalzò.
Capelli neri e ricci ricadevano su un viso di un ragazzo sopra i vent’anni dalla pelle baciata dalla penisola iberica e i lineamenti spigolosi, elementi che le fecero baluginare un pensiero nella mente, un nome, scacciato solo nel momento in cui i loro sguardi si incrociarono.
Gli occhi, quegli occhi neri come la pece, i pozzi del diavolo, la guardavano con una freddezza che le tolse ogni dubbio, ogni pensiero, scacciando quel fantasma dalla sua mente e facendole affiorare sulle labbra una parola:

“Juan”

Il Marinus, con uno sguardo fiero, piegò le labbra in una smorfia.

“Caracciolo”

La sua voce era cambiata, diversa, pregna di un astio che sembrava non essersi dissolto dalla sera stessa in cui da quell’inferno di Palazzo Fava era uscito solo lui.
La latitanza lo aveva reso forse più ferale di quanto si potesse immaginare e, forse, anche folle: si faceva proteggere dai Carthiani.
Da quella fantomatica notte Abel aveva promulgato una caccia di sangue su di lui e, di conseguenza, i suoi alleati erano stati costretti a rifiutargli la protezione. Kaine aveva più volte ribadito che fosse un atteggiamento da teste di cazzo, ma a quanto pare il Marinus era fiducioso del fatto che sottobanco Giulia Geremei e il Mallari stessero lavorando per spodestare il folle Principe di Bologna sancendo così la sua vendetta, raddoppiata dalla morte di Hulio.
Ed eccoli lì ora, come clandestini, in un fottuto seminterrato carthiano, tre mekhet di cui uno cacciato di sangue in tutta Italia, una ventrue e una daeva di cui non sapeva un accidente.

Che bel quadretto.

“Sedetevi.”

Juan le indicò una sedia di fronte a lui e le piantò addosso di nuovo quegli occhi freddi: non avrebbero cominciato se non si fosse seduta anche lei.
Con stizza, Kaine tirò a sé la sedia e vi si sedette, con le gambe leggermente divaricate, un gesto volutamente plateale che si concluse pure con un accenno di riverenza.
Marinus decise di non considerarla e passò oltre.

“Kaine, siamo qua perché entrambi siamo stati poco attenti. Il Principe di Bologna non era osservato solo da noi…ma anche da qualcun altro.”

Dall’espressione scocciata che aveva, la megerita passò immediatamente ad una profondamente seria, che compiacque il Marinus tanto da fargli fare un sorrisetto trionfante.
Fu la voce sensuale di Clotilde a riscuoterla:

“Diciamo che Abel è stato nei miei pensieri da prima che fosse nei vostri.” Un altro sorriso ammaliante le affiorò sulle labbra, bello da far impazzire chiunque “E ho scoperto delle cose interessanti su di lui.”

Selene, fino a quel momento rimasta in silenzio, nella sua innocenza fece la stessa domanda che era sorta a Kaine, forse in modo meno gentile:

“Come mai venite a dircelo proprio adesso? Perché dovremmo fidarci?”

“Sono sempre stata nei miei laboratori, sono venuta a sapere della missione del Marinus solo in tempi recenti…tristemente recenti”

Juan rimase immobile, fissando un punto imprecisato della superficie del tavolo, come se volesse estraniarsi dalla conversazione, provocandole un’ondata di uno strano sentimento che sconvolse la Ventrue: empatia. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma fu intercettata e sovrastata da Clotilde, che continuò la sua spiegazione dicendo come il piccolo Paride Crisafi fosse stato cruciale, di come l’avesse informata di ciò che era successo a Palazzo Fava e della macchinazione che c’era dietro.
Entrambi non celarono dolore quando citarono Ettore, soprattutto il ragazzino: i suoi occhi verdi sembrarono scintillare di rabbia, o forse era solo la luce al neon di quel seminterrato a giocarle brutti scherzi.

“Ho già perso tre compagni nel giro di pochi mesi.” La voce di Clotilde, fino a quel momento calma e suadente, tradì anch’essa rancore. “Due morti per Abel Caracciolo…”

Improvvisamente un lampo squarciò la mente di Kaine, un’illuminazione che le fece sputare fuori un nome per intero, senza pensarci:

“Vincenzo Della Torre.”

Sia Paride che Clotilde tacquero per lunghi istanti, come se quel nome rievocasse un’ignominia da dimenticare. La daeva si alzò in piedi, altra occasione per denotare le sue gambe, e si schiarì la voce.

“Avete mai sentito parlare dei Malocusiani?”

Il silenzio accolse quella domanda, lasciata aleggiare nell’aria appesantita attorno a quel tavolo.

“Voi dovreste conoscerli, Kaine, sono una stirpe del vostro sangue.”

“Una…linea di sangue?”

Clotilde annuì, per poi recitare:

La mia casa è il mio tempio” fa un sorriso amaro “Letteralmente. Le loro dimore diventano parte di loro stessi, cacciano per loro, li difendono…se potessero, vivrebbero nei loro rifugi.”

“Il Principe ha cominciato ad assentarsi dagli elisei…”

“I Malocusiani mal tollerano la lontananza dal rifugio: è come se vi tenessero lontani dal sangue quando avete sete, è qualcosa che progressivamente diventa insostenibile.”

Anche al Marinus cominciò ad accendersi qualche lampadina.

“Dentro al Palazzo…” levò lo sguardo di pece su Clodilde, esterrefatto “Ho visto voragini aprirsi e fuoco divampare, morti risorgere ad oltranza…”

“Una volta dentro a un rifugio di un Malocusiano non avete scampo: tutto è sotto al suo controllo. È già tanto che voi siate vivo, Juan.”

Kaine s’ammutolì mentre la daeva sciorinava le sue nozioni, come un fiume in piena. Lei, in silenzio, iniziava a fare dei collegamenti.
Le fughe dagli elisei, i suoi repentini cambi di umore, la sua pazzia crescente e incontrollabile: tutto, tutto cominciava orrendamente a combaciare in un puzzle distorto, in cui però sembrava mancare un solo pezzo.

“Non mi avete spiegato di Vincenzo Della Torre.”

La Daeva annuì gravemente.

“Il Prefetto sarebbe diventato un Malocusiano, se il Movimento non avesse intercettato le sue manovre.”

Paride fece una smorfia carica di sdegno.

“Quello stronzo stava per tradirci tutti, diventando un fottuto paggio Invictus.”

Marinus gli lanciò un’occhiata in tralice, a cui il piccolo vampiro non esitò a rispondere a tono, con un ghigno sulla faccia provocatorio. Erano sul piede di guerra, già pronti a prendersi almeno a male parole, ma Clotilde, con un ringhio basso, riuscì a mettere a tacere il Crisafi, non senza qualche borbottio.

“Vincenzo voleva vendere…” la daeva indugiò qualche istante, come se cercasse le parole. “Delle cose che ho creato. Delle cose che…avrebbero potuto alleviare la sofferenza di un Malocusiano quando dista dal suo rifugio. Io non sapevo…”

Ma la Gerofante aveva già smesso di ascoltarla. Nella sua testa rimbalzavano le immagini di Marie, la Hostewick incinta, che le diceva che la pazzia del suo signore era cominciata in una notte precisa, dopo la scomparsa di Vincenzo Della Torre.
Sul volto le si dipinse un’espressione consapevole, come quella di chi ha raggiunto una soluzione a un rebus o di chi ha appena completato il cubo di Rubik.

Abel…volevi nascondere il tuo segreto. Sei impazzito per non affrontare il dubbio, il timore di essere scoperto…

In un millesimo di secondo, provò compassione. Quella stessa compassione da lei odiata, quello stesso sentimento che le aveva causato rabbia e frustrazione, in quel frangente la travolse con la forza di un pugno in pieno viso, lasciandola rintontita e inebetita.
Eppure, così come era venuta, quella stilla di luce scomparve, mangiata dal risentimento, la vergogna e l’umiliazione che aveva subito da lui, quello che aveva desiderato, quello che condivideva il suo cognome ma che era orfano come lei, quello che era stato suo fratello.
Era.
Quel dannato lì, quello che l’aveva violentata a Palazzo Fava, non era altri che la cosa più vicina ad un mostro aberrante.
Per questi pensieri non ebbe remore quando la sua voce si levò nella stanza, roca e graffiante:

“Come si fa, allora, a prendere un Malocusiano fuori dal suo rifugio?”

La risposta di Clotilde giunse rapida e secca come un colpo di cannone.

“Non si può.”

“E allora è impossibile?”

Juan stava cominciando a scalpitare. Tratteneva a stento il nervoso, puntellando i gomiti sulla sedia e picchiettando nervosamente un piede per terra, sempre più stizzosamente.

“La giusta domanda è: si può far uscire un Malocusiano dal suo rifugio?”

Selene, come una studentessa, alzò timidamente una mano.

“Una dimora poco ospitale, anche se stupenda, spinge chiunque ad andarsene.”

Clotilde fece un sorrisetto deliziato e, con uno schiocco di dita, aggiunse:

“E cosa potrebbe mai spingere un qualsiasi dannato a farlo e soprattutto uno che ha nel rifugio una parte fondante della sua sopravvivenza?”

Paride fece un ghigno e, teatralmente, mimò con le mani un’esplosione, con tanto di esclamazione onomatopeica.
Gli occhi del Marinus incrociarono quelli di Kaine e vi rimasero per alcuni interminabili istanti. Non servivano parole: le stava chiedendo ancora un ultimo supporto, un’ultima fatica prima della fine.

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Febbraio 2020, Civitavecchia.

Calciò con stizza una pallina di carta e la osservò rotolare sotto la scrivania, un pezzo di mobilio rubato da chissà quale discarica, mezzo bruciato da una parte e mangiato dalle tarme dall’altra.
Seduto su uno scomodo letto di cui non osava immaginare la provenienza, Juan Marinus era vagamente irritato, come ormai accadeva da diverse notti a quella parte.
La caccia di sangue andava avanti da un paio di mesi e lui, chiuso in quel dannatissimo seminterrato, si sentiva inutile come l’ultimo dei paggi o, peggio, un ghoul di una famiglia cadetta.
Voleva vendetta, sentiva di averla lì, tra le mani, la percepiva tra le dita come un velo, eppure dov’era lui? Chiuso in un seminterrato, per giunta di una Succube del Movimento Carthiano.

Quanto sono caduto in basso?

Mai avrebbe pensato che quegli sconclusionati carthiani gli sarebbero serviti e, soprattutto, che il loro intervento gli avrebbe permesso anche di sopravvivere.
Si prese il volto tra le mani, passandosene lentamente una tra i capelli.

Tu avresti saputo cosa fare. Eri tu quello bravo con la plebe, non io.

Ma Hulio era morto. Morto. Quel cane di Caracciolo lo aveva stretto nella sua morsa letale della sua casa infernale e lo aveva ridotto in cenere; così Juan era rimasto solo e come tutti gli altri: privo della possibilità di rivedersi allo specchio.
Non era solo questo, certo. La perdita del gemello lo aveva devastato più di quanto si sarebbe potuto immaginare, forse perché si era reso conto di doversi confrontare con la dura realtà, ovvero che adesso era veramente Juan Marinus e basta, i suoi occhi neri e profondi erano gli unici a vagare nella danza macabra, così come la sua pelle baciata dal sole iberico.

Solo.

Era solo. Suo fratello non c’era più e avrebbe dovuto affrontare l’eternità con la sua pressante assenza, talmente tanto da averlo portato a maledirsi da solo per essere stato così accecato dal desiderio di vendetta, dal potere, dalla gloria.
Alla fine di tutto cosa avrebbe avuto? Due città, l’unione di due casati centenari nella storia del Primo Stato, un’orribile quanto ricca moglie, ma cos’altro? Cosa gli sarebbe rimasto dentro?
A quelle domande non sapeva rispondere. Sentiva un vuoto opprimente nel petto, che divampava mangiandoselo dall’interno, maciullando un brandello di anima per volta. Ad ogni crepuscolo si rialzava da quel giaciglio e sentiva di star sprofondando in un baratro, che non ci sarebbe stato nulla che lo avrebbe fatto risalire: si sentiva ormai perduto.
Così, mentre aspettava che qualcuno bussasse per portargli da bere, come in carcere, si chiedeva:

Era così forte la presa che Hulio aveva su di me? Cosa avrebbe fatto lui al mio posto?

Aveva cercato di immaginarselo, lì, chiuso in quelle quattro mura anguste a pianificare una vendetta e ad essere uno dei dannati più ricercati d’Italia ma, nonostante questo, sentire di non star facendo nulla e di star con le mani in mano.
Due colpi ben assestati lo fecero alzare in piedi, rivolgendosi frontalmente verso la massiccia porta antisfondamento. Mugugnò una risposta e dal pesante ingresso sgusciò fuori la figura mingherlina di Paride Crisafi, chiusa nel cappotto di pelle lungo e largo rispetto alla sua fisicità di ragazzino.
Non voleva toglierselo, non da quando il suo precedente possessore, Ettore, era morto.
Nonostante alcuni dissidi iniziali, Juan rivedeva negli occhi chiari della piccola ombra il suo stesso dolore, lacerante e pervasivo, di chi ha perso qualcuno di importante, un pezzo fondamentale della non vita.
Prese il calice rapidamente e allo stesso modo lo buttò giù, tutto d’un fiato.

“Come procede?”

Ormai Paride era rimasto l’unico contatto con il mondo esterno. Si era privato anche di comunicazioni telematiche per timore che le risorse di Abel e dei suoi sostenitori potessero raggiungere il suo indirizzo ip: viveva di lettere che non poteva scrivere in modo profuso come avrebbe voluto, dato che passavano in mano ai carthiani.

“Stiamo preparando le ultime cose. I miei amichetti sanno il fatto loro…non a caso mi chiamano il re del tritolo.”

Juan fece un sorriso sinceramente divertito.

“Re del tritolo?”

“Potete scommetterci. Mandiamo dentro al palazzo qualche tizio imbottito di quella roba e…”

Le braccia del ragazzino iniziarono a muoversi freneticamente, simulando esplosioni a raffica con le mani.

“…al mio segnale scatenate l’inferno!”

Juan socchiuse gli occhi lasciandosi per un attimo alle spalle le descrizioni dettagliate di Paride e focalizzandosi su Palazzo Fava avvolto dalle fiamme.
Già lo sentiva, l’odore acre del fumo, le grida, il calore del fuoco letale.

Chi l’ha detto che la vendetta è un piatto da servirsi freddo?
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Qualche settimana dopo, Palazzo Fava.

“Siete tornata, illustre Kaine.”

Una cascata d’acqua calda le inondò le membra, scivolando dalla testa alle spalle, fino a confondersi con l’altra acqua che riempiva la vasca. In poco tempo striature rossastre si diramarono dal suo corpo, fluttuando dal suo corpo fino ai bordi, schiantandovisi contro e lasciando un po’ di alone rosato.
La figura di Marie, la Hostewick incinta, comparve in mezzo al vapore, magra e pallida come la ricordava, ma con il ventre piatto, cosa che le fece sorgere spontanea una domanda, alla quale lei rispose con un tacito assenso, accompagnato da un sorriso.

“È una bambina” le disse “L’ho chiamata Ambra.”

Kaine le sorrise debolmente e mugugnò qualche parola per congratularsi, anche se non sapeva bene perché lo stesse facendo.
Le mani sottili di un’altra Hostewick iniziarono a strofinarle la schiena con energia, mentre un’altra le levava il sangue incrostato laddove poco prima Abel aveva sfogato la sua rabbia.

“Perché siete tornata, illustre Kaine?”

La Gerofante socchiuse gli occhi.

Già, perché?

“Mi mancava.”

“Nonostante tutto?”

Lo sguardo scuro si posò su quello grigio-verde della ghoul e, per un istante, pensò di sfruttare i suoi poteri di dominazione per farla andare via e farle dimenticare di averla vista. Poi, mentre scacciava con un ringhio la ragazzina che le stava scorticando la schiena e si divincolava dall’altra che si stava occupando del suo braccio.

“Nonostante tutto, sì” sibilò “È mio fratello. Mio fratello. Io…speravo di farlo tornare come prima.”

L’altra, silenziosamente, annuì e mandò via le altre ghoul.
Kaine si sollevò dalla vasca, l’acqua scrosciò ruscellandole dai seni fino al ventre, scendendo lungo le cosce e tuffandosi laddove sparivano i piedi.

Uscì dalla vasca. Le mani sapienti e delicate di Marie le unsero la pelle di un’essenza profumata che ricordava vagamente i fiori di ciliegio, ma non ne era certa: ormai erano passati decenni, faceva fatica a solo immaginarsi come fosse un fiore o il suo profumo.

È così facile ingannare gli umani.

Si asciugò la testa con un panno, mentre la ghoul si occupava delle sue gambe.

Una sorella profondamente innamorata del fratello, profondamente devota nonostante i soprusi.

Guardò Marie, i suoi arti oblunghi e il viso spigoloso e smagrito.

Fate l’errore di credere che noi dannati saremo sempre legati ai nostri affetti, incondizionatamente…

Sospirò. Una volta uscita da quell’inferno avrebbe riferito al Crisafi che la sicurezza era aumentata lì al Palazzo Fava e che avrebbero dovuto far attenzione nel momento dell’assalto.
Era stato un sacrificio dover subire di nuovo le angherie di Abel, più doloroso del previsto ma, al contempo, meno umiliante, perché aveva uno scopo.
Presto sarebbe finito tutto. Presto…
Una consapevolezza le attraversò la mente e, per un istante, fu sul punto di dire qualcosa di altamente compromettente a Marie, ma furono le parole di Clotilde a rimbombarle nella testa come un monito:

Dentro al rifugio di un Malocusiano tutto arriva ai suoi occhi, tutto arriva alle sue orecchie.

Mordendosi un labbro, la Gerofante posò dolcemente una mano sulla spalla della donna e, per la prima volta nella sua non vita, disse un ‘grazie’ sincero, forse perché consapevole che non l’avrebbe rivista mai più.

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Fine marzo 2020, Palazzo Fava.

“I tuoi uomini?”

“Aspettano un mio segnale.”

Paride fece un cenno verso il basso, laddove il buio celava ad un occhio umano qualsiasi cosa. Attivando la vista amplificata in quel punto, Juan vide rimbalzare diverse aure umane sia a destra che a sinistra del Palazzo, mentre sul retro gli uomini di Giulia Geremei e Gustavo Mallari aspettavano pazienti un segnale.

“Quindi…lo farete voi?”

Gli occhi del ragazzino erano fissi su di lui, seri, quasi fuori posto nel volto di un eterno quindicenne. Lui, in risposta, fece scivolare la mano sul paletto e, tirandolo fuori dalla giacca, glielo mostrò.
Paride annuì gravemente.

“Bene. Ettore non sarà morto invano.”

Tacquero per qualche istante, beandosi della quiete della notte bolognese. Una leggera brezza li sfiorava, lì, sul tetto del palazzo di fronte al rifugio del Caracciolo, un momento di quiete prima della tempesta che sembrò durare in eterno.
Juan inspirò a pieni polmoni l’aria pulita ed esalò un sospiro.
La voce di Paride, secca e risoluta, sancì l’avvio dell’operazione.
Il piano era semplice: i mortali imbottiti di tritolo si sarebbero dovuti avvicinare per tenere a bada le guardie di Abel e distrarlo, mentre lui e Paride avrebbero lanciato una serie di molotov nelle finestre del palazzo. Le fiamme si sarebbero propagate nel giro di poco e Abel sarebbe stato costretto a scappare: lì sarebbero intervenuti gli uomini di Giulia e Gustavo che lo avrebbero intercettato e reso innocuo fino al suo arrivo.
E finalmente avrebbe avuto la sua vendetta, avrebbe guardato negli occhi quel figlio di puttana e avrebbe pure goduto nel vedere la sua faccia mentre la punta del paletto gli trafiggeva il cuore.

Boom.

La prima esplosione. Probabilmente i mortali di Abel erano morti e lui stava già adoperando la sua casa infernale per impedire l’accesso agli altri alleati del Crisafi.
Paride osservava attento come uno scacchista fa durante la partita della vita. Mentre la colonna di fumo si levava verso l’alto e le prime sirene si sentivano in lontananza, gli fece un cenno: era giunto il momento.
La Bestia scalciò dentro di sé quando una piccola fiamma si accese sulla miccia della sua bomba: durò un attimo, un attimo intenso che però gli permise di alzare il braccio e di lanciare la bottiglia verso il vetro di una finestra del primo piano.
Crisafi lo incitò a continuare: dovevano essere rapidi e incessanti, era solo questione di minuti prima che Abel si accorgesse che le bombe umane erano solo dei diversivi.
Le fiamme, come previsto, si dilagarono in un attimo, accendendo il palazzo come una torcia nel buio.
Juan sorrise, mentre Paride ululava compiaciuto.

Presto…

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Dall’altra parte del Palazzo, Kaine rimaneva perfettamente immobile, a fianco di un’improbabile Giulia Geremei e Gustavo Mallari. Sentiva i loro sguardi indagatori su di lei, ogni tanto confabulavano e le lanciavano occhiatacce, soprattutto quella perfettina della Geremei: non si fidavano, era evidente, ma chi era lei per dare loro torto?
Cosa spingeva la sorella del Principe a volerlo portare al torpore?
La Ventrue ebbe un fremito che le pervase la gamba destra fino alla nuca. Ormai si era spinta troppo in là anche solo per pensare di tradire la causa: aveva troppo da perdere.
Così, quando le fiamme divamparono dalle finestre di Palazzo Fava non pensò al Principe di Bologna, non pensò al fratello: il suo pensiero corse a Marie Hostewick e la piccola Ambra, morte sotto i colpi incessanti delle bombe mortali del Crisafi o, anche peggio, per asfissia da fumo.
Con gli occhi cercò una qualche figura, una sagoma, qualcosa o qualcuno che si muovesse all’interno e cercasse di uscire: ma non vide altro che fumo, fiamme e le porte sigillate.
Le tremarono le labbra. Una strana sensazione le pizzicò gli occhi, ma la scacciò via con un movimento secco del capo.
Non se ne sarebbero mai andati gli Hostewicks, sarebbero morti con il loro padrone.

Quale stregoneria può mai essere il sangue di un dannato…

Improvvisamente la porta principale si aprì.
Ne uscì, incespicando sui suoi stessi piedi, un uomo che aveva una parte del corpo avvolta dalle fiamme: barcollò gridando fino a buttarsi per terra e rotolare forsennatamente per spegnere la manica di una camicia, ormai ridotta a brandelli.
I bottoni erano di madreperla.
Brillavano riflettendo la luce del fuoco, brillavano rivelando l’identità di quell’uomo così miserabile che strisciava, gemendo, ai piedi di un plotone d’assalto e tre dannati.

“Guarda guarda…” Giulia Geremei sogghignò divertita “Vostra Altezza!”

Abel alzò lo sguardo su di lei, furente, spostandolo poi sul Mallari trattenendo un ringhio.
Nel momento esatto in cui i due Caracciolo incrociarono gli occhi, il tempo sembrò fermarsi, i suoni ovattarsi e tutto perdersi, risucchiato in un vortice nero.
Solo loro, sospesi nel vuoto di un universo plumbeo, solo loro a perdersi ognuno nelle proprie coscienze, nelle proprie consapevolezze, nei propri rimorsi.
Lo vide lì, inerme, il volto coperto di cenere ma con gli occhi, quelle due sfere di lapislazzuli, che la penetravano nell’anima e le raschiavano dolorosamente le ossa.
Lo vide lì e le ricordò chi era stato, lo vide lì e si rese conto che di quel dannato non c’era più niente.
Si mosse.
Lenta, incessante, sinuosa: la pantera, la sua pantera, andava verso di lui fissandolo con occhi vuoti, tacendo perché ormai anche le parole erano state annientate.
E come lui planò su di lei in quello stesso palazzo che in quel momento stava andando in fiamme, lei si avventò su di lui con furia cieca, rapida, letale: gli azzannò la gola e bevve, dilaniandogli la carodite, strappando lembi di pelle, affossando le mani per l’ultima volta in quei capelli dorati che con il tempo aveva imparato ad amare, ringhiando per soffocare il dolore e le sue urla.
Ad un certo punto si staccò e lo lasciò andare, ormai ridotto a un sospiro flebile, e lo guardò con occhi annebbiati dalle lacrime.
Accadde rapidamente, forse troppo. La lama del suo athame lacerò la camicia pregiata, si spinse nella carne, affondò nel sangue e incontrò il cuore.
Kaine sentì il sapore dei baci perduti.
Spinse ancora di più il pugnale.
Sentì gli sguardi lascivi agli elisei.
Spinse ancora più a fondo.
Sentì le parole sussurrate nel loro talamo.
Urlò e la punta del paletto trapassò la schiena, toccando il suolo.

Abel sparì dalla sua vista: al suo posto, un mucchio di cenere.

Mentre le grida di Giulia Geremei le rimbombavano nelle orecchie, rabbiose per aver tolto la vendetta al Marinus, Kaine scivolò via nella notte, sola come non lo era mai stata