Buongiorno!
Dopo una piccola pausa, torna l’appuntamento mensile di narrazione a tema Vampire The Requiem, con l’intento di far comprendere le sottili dinamiche di questo gioco di ruolo!
Con un nuovo anno, inizio una nuova trama più articolata che sarà suddivisa in puntate. La storia riprenderà alcune vicende già descritte in altri racconti, per cui vi invito, se non l’aveste fatto, a rileggervi nel dettaglio “Sangue di Re”, “L’anello impazzito” e “Il vinto e l’invitto”.
Cosa succede quando un Principe perde credibilità? La fedeltà di un consanguineo, è eterna o suscettibile a corruzioni e ricatti?
In questa storia percorrerò le dinamiche che portano un gruppo di dannati a mettersi contro una figura potente come quella di un Principe che ha comunque le sue risorse e alte difese.
Buona lettura!
Sofia Starnai
Gruppo letterario Camarilla Italia
http://www.camarillaitalia.com
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Bologna, Maggio 2020, tenuta privata di Abel Caracciolo.
“Mio signore, fuori c’è vostra sorella.”
Il giovane pallido, stravaccato su un lussuoso divanetto dal gusto vagamente barocco, aprì gli occhi e li puntò verso il suo servo, un maggiordomo sulla quarantina brizzolato, magrissimo e smunto.
“Fatela entrare.”
Con un cenno servizievole l’altro sparì, lasciando solo il Principe di Bologna. Si mise a sedere composto, sistemandosi la camicia vagamente sgualcita, una Armani confezionata su misura, con bottoni di madreperla e cuciture minuziose. Dicevano che per renderle così usassero bambini cinesi con le loro mani minuscole; un abominio per molti mortali e associazioni benefiche, ma per lui non era altro che un beneficio: quelle camicie erano veramente eccezionali.
Quando la figura del valletto tornò, al suo seguito c’era lei, la sua ambrosia, Kaine. Come sempre aveva quell’espressione selvatica che tanto gli piaceva, acuita dal naso appuntito e il volto spigoloso.
Non c’era nessun’altra donna, vampira o umana che fosse, che lo attraesse come faceva lei: l’elettricità che i loro corpi intrecciati gli donava era unica, ed era una delle sue droghe più potenti.
In quel momento il tutto era deturpato dal maggiordomo e il suo volto smunto, rigorosamente rivolto verso il basso in una tacita sottomissione.
“Potete andare, Edgar.” Gli disse con un tono che non ammetteva repliche.
Per fortuna con lui non c’era bisogno di ripeterlo: aveva una strana propensione a comprendere i messaggi subliminali, una dote che non sempre un seguace riusciva ad avere, soprattutto se alle prime armi con un vampiro.
I giovani ghoul sapevano essere davvero impegnativi, soprattutto se estratti dalla società odierna: il mito del vampiro, con tutti i prodotti mass mediatici e le figure iconiche (alcune discutibili, altre meno), era entrato nell’immaginario collettivo trasmutando e plasmando gli ideali e le fantasticherie.
Non poche volte si era ritrovato ad avere a che fare con ragazze o donne, desiderose di avere la storia struggente di Bella Swan con il suo Edward Cullen, magari sperando di infilarci nel mezzo un licantropo con cui creare un accattivante triangolo; non poche volte era stato costretto a usare il pugno di ferro per ricordare loro il guaio in cui si erano cacciate: erano schiave, serve, silenti e accondiscendenti. In cambio ricevevano sangue immortale, abbastanza per renderle diverse ma non troppo da farle trapassare, godevano di alcuni privilegi ma dovevano anche sobbarcarsi gli svantaggi.
Lui era un dannato mediamente magnanimo, anche se ogni volta che sentiva nominare alcune delle stramberie scritte negli ultimi anni, sentiva un brivido corrergli lungo la spina dorsale e pensava:
Io non brillo alla luce del sole, cazzo.
Un odore familiare di ortensie misto a umidità notturna lo riportò al suo salotto e alla Gerofante di Bologna che stava in piedi, sola, accanto al divanetto. Colto un po’ alla sprovvista, le fece cenno di sedersi.
“Quei tuoi servi mi inquietano.” Disse guardando circospetta verso la porta “Mi sembra di sentire i loro piccoli occhi addosso.”
“Non essere così sospettosa. Gli Hostewicks servono l’Invictus da generazioni, di padre in figlio, dalla Britannia fino a noi.”
Lei fece una smorfia. Comprensibile, dato che era stata una schiava nella vita mortale.
“Sono molto devoti e sanno qual è il loro posto.” Continuò Abel, con un sorriso sornione “Altrimenti non sarebbero sopravvissuti.”
La osservò sedersi, su una poltroncina di fronte a lui. La collana con il ciondolo a specchio lo inquadrò senza mostrarlo davvero. Aveva perso interesse per quel monile, come molte altre cose, tuttavia la coincidenza con cui questo le ricadeva proprio sullo sterno, tuffandosi quasi tra i due seni, faceva in modo che gli ci cadesse lo sguardo.
“Sono tutti dannatamente uguali.”
“Ovviamente. Nacquero per sbaglio, sai? Un Ventrue Invictus diede il suo sangue a quattro dei suoi servi…e una di loro era incinta. La bambina che venne alla luce fu la prima Hostewick e la prima a riportare i segni caratteristici di questa lunga stirpe: delicatezza di lineamenti, pallore, magrezza, capelli scuri e occhi grigio-verdi.”
Una figura sottile passò davanti alla porta, salutando con un inchino mesto per poi svanire nuovamente: vide solo una lunga chioma bruna e un abito elegante degli anni 60’. Kaine si irrigidì sul posto e rifilò un’occhiataccia di ghiaccio che avrebbe fatto pietrificare qualunque essere umano. Tuttavia, la ragazza Hostewick non aveva battuto ciglio, aveva salutato anche lei con educazione era sparita come era apparsa.
“Dimmi, sorella, cosa sei venuta a fare qui?” ridusse gli occhi a due fessure, passandosi rapidamente la lingua sulle labbra “Ti mancavo?”
Cercò di allungarsi con un braccio, per poterle toccare la gamba. Lei però sembrò non apprezzare e scattò sulla sedia, come se fosse stata punta da una vespa:
“Smettila Abel, non sono qui per questo!”
La vide alzarsi, muoversi a scatti, nervosa come non mai. Lui d’altro canto non si scompose di una virgola, anzi, quella situazione era quasi divertente.
“Che fine hai fatto?”
“In che senso?”
“Sei sparito dagli elisei negli scorsi mesi. Presenziavi un’ora, massimo un’ora e mezza e poi sparivi.”
Abel roteò gli occhi al cielo, abbandonandosi sul divano e brontolando:
“Ma cosa vuoi che sia…questi elisei sono tutti uguali, Kaine.”
“E invece no, lo sai benissimo! La danza macabra è sempre in movimento!”
Ah, al diavolo la danza macabra. Al diavolo gli elisei…
Fece leva sulle ginocchia e si mise in piedi. I pantaloni del completo gessato erano un po’ sgualciti ma comunque perfetti, come tutti gli abiti che possedeva.
La guardò, a lungo, bevendosi ancora ogni centimetro della sua pelle come se fosse la prima volta, mentre le sue parole diventavano ovattate e man mano sempre più distanti.
Osservò lo zigomo d’ebano, gli occhi di pece e il caschetto corvino. Le labbra, il profilo del naso, il piccolo neo sul collo, la spalla con un accenno a una delle tante cicatrici che le deturpavano la schiena. Scivolò lungo lo sterno, rivedendo le forme nascoste degli abiti, s’insinuò con la mente oltre il monte di Venere, scivolando ancora lungo le cosce tornite e i polpacci, fino ai piedi.
Si avvicinò, poco aggraziato, poco nobile, e cercò di ghermirla alla vita sottile con un braccio. Kaine fu colta alla sprovvista, ma non si arrese e si divincolò, sbilanciandosi all’indietro.
“Sei il Principe di Bologna!”
“Esatto!”
Allargò le braccia, trionfante. Sul volto mulatto della megerita comparve un’incomprensione scandalizzata, un qualcosa che mai le aveva visto e che nonostante tutto la rendeva ancora più desiderabile.
“Sono il Principe. Sono la legge di questo dominio, il Primo Predatore della città…e se voglio andarmene prima da un eliseo del cazzo, nessuno può recriminarmelo.”
“Ma non si tratta solo di questo…”
“Ah, basta Kaine. Non me ne frega niente: vieni qui, che ti mostro quanto tu mi sia mancata…”
Le tese una mano, sorridendole in un modo che lei conosceva bene e con cui riusciva sempre ad ottenere quello che voleva. Eppure, il corpo della megerita stava fermo al suo posto, rigido, determinato a non schiodarsi neanche di un passo da quella porzione di parquet in mogano.
Sentì qualcosa nel profondo, qualcosa di raschiante che gli bruciava lo stomaco, risalendo come un nero fumo fino alla trachea.
Il rifiuto, lui, non l’aveva mai sperimentato.
E no, certamente non gli piaceva.
“Abel”
Persino il suo nome tra le sue labbra non aveva il solito sapore, era contaminato, inasprito, avvelenato di qualcosa che lo inquietava sottilmente e profondamente.
“Io non so cosa ti stia succedendo, ma questa storia deve finire. Prima le fughe dagli elisei, poi hai cominciato a perdere il consenso del Movimento Carthiano…e il sacrificio di Vincenzo della Torre? Quello che ti ha salvato la vita? Lo stai rendendo vano!”
Dall’ultimo loro incontro, nel novembre scorso, non aveva saputo più nulla del Prefetto Carthiano bolognese, Vincenzo, il suo Siniscalco nonché vassallo fidato.
Alcune voci di corridoio avevano bisbigliato che nei ranghi del Movimento qualcuno si era indispettito di alcune sue azioni ed erano stati presi provvedimenti.
Kaine invece credeva che ci fosse lo zampino di qualcuno che puntava proprio al lui, attaccando prima il suo fedele servitore.
In realtà Vincenzo era molto più che un Siniscalco, molto più che un esponente Carthiano in vista nella città di bologna: lui sarebbe potuto essere qualcosa di diverso…
Ma nessuno poteva capirlo. Nessuno.
La sua dipartita lo aveva scosso. Nel suo piccolo si era sentito tradito e il fatto che non si trovasse più non lo rendeva affatto tranquillo.
Se era veramente polvere, voleva vederlo.
Il dubbio lo aveva attanagliato e ancora lo tormentava, solo che lo dava meno a vedere.
Vincenzo della Torre era l’unico a sapere qualcosa del suo Principe e quel qualcosa era un segreto inconfessabile, che neppure la sua cara sorella, la fidata Kaine, poteva accogliere.
Il sol pensiero che quel Carthiano potesse aver proferito una parola di troppo lo faceva uscire di senno, letteralmente.
Per questo quando la megerita pronunciò quel nome in lui scattò qualcosa e, come una molla, fu a un passo da lei, con una mano ad artigliarle un braccio e l’altra a tenerle fermo il volto.
“Io non devo niente a nessuno. Niente!”
Ebbe un fremito strano che lo colse di sorpresa. Rabbia, mista ad eccitazione.
“Io sono libero di fare quel che mi pare. Di non presentarmi agli elisei, di non fare alcunchè per tenermi buoni quei cani del Movimento Carthiano…come con tutti voi altri.”
Fece un sorriso, con un’alzata di spallucce.
“Non me ne frega un cazzo delle messe dei Santificati…non me ne frega un cazzo dei luoghi di potere, non mi interessa neanche darli a voi megeriti e nemmeno ai dragoni. Non me ne importa di quel mostro mangia carne di mia moglie, la scrofa Mallari, che solo a pensarci mi viene il disgusto.”
Si chinò su di lei e con la punta della lingua passò sopra l’arco di Cupido del suo labbro superiore.
“Io sono il Principe di Bologna.” La guardò nei suoi grandi occhi neri, spalancati e atterriti. “Io posso avere tutto…io avrò sempre tutto, indipendentemente dagli altri. Sarete comunque ai miei piedi, come burattini.”
Un’altra scossa malsana gli attraversò la spina dorsale, costringendolo a lasciarle andare il viso. In una frazione di secondo la stessa mano si era sollevata e aveva assestato un manrovescio, che se fosse stato umano sarebbe rimasto senza fiato per lo sforzo.
La guardò ricevendo in cambio uno sguardo sfrontato, selvatico ma irrimediabilmente ferito.
Lui però lo era più di lei.
Per questo non si fece problemi a planarle ancora addosso, come un falco, mentre le sue grida echeggiavano nel salone.
Sentì il rumore della porta accostarsi e con la coda dell’occhio vide la figura della ragazza Hostewick sparire tra gli infissi di legno, silente anche nel lasciare il corridoio per spostarsi altrove.
Tornò su Kaine: il ragno aveva la sua preda.
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Più tardi.
Le venature del mogano sul parquet disegnavano degli strani arabeschi che sembravano quasi muoversi sotto il suo sguardo. Ormai erano almeno venti minuti buoni che fissava quel pezzo di pavimento, come se avesse qualche attrattiva, mentre cercava di cancellare ciò che era appena avvenuto in quelle quattro mura.
Il suo corpo nudo e martoriato dal tempo se ne stava steso sul divanetto, mentre pezzi dei suoi abiti ornavano il tappeto persiano, insieme a macchie di sangue fresco, le stesse che dipingevano un seno, un braccio, una gamba.
Non era ferita. I tagli ormai erano scomparsi dalla pelle scura, tuttavia ciò che era lacerato si trovava dentro a quell’ammasso di carne e ossa tenuti in vita dall’eterna dannazione, ed ormai era dilaniato, in modo permanente.
Mai avrebbe potuto immaginare di rivivere qualcosa del genere, mai avrebbe pensato che lui fosse in grado di essere così…
Un fruscio alle sue spalle la fece scattare a sedere. Una donna, dai capelli scuri e raccolti in una crocchia bassa, stava davanti la porta, con il capo chino e le mani giunte sul grembo.
Kaine si soffermò sul rigonfiamento del ventre che, nell’insieme della fisionomia, rendeva la donna Hostewick una bambina orrendamente malformata.
Alzò gli occhi su di lei e le borbottò qualcosa del tipo “non sono una nobile, alzate la testa”, per poi rendersi conto di essere nuda e di non aver nulla con cui coprirsi.
La voce soffusa della Hostewick le giunse come se fosse velluto:
“Il padrone vorrebbe che vi lavaste. Seguitemi, Illustre Kaine.”
“Non chiamatemi Illustre…”
Si guardò intorno. A parte i vestiti strappati, non c’era niente che avrebbe potuto usare per evitare di camminare nuda. Sospirò, alzando le spalle: magari Abel voleva anche questo. Dopo la vergogna, pure l’umiliazione di essere vista da uno stuolo di ghoul dall’aspetto scheletrico e macilento.
Il tragitto tuttavia non fu così lungo e non incontrò nemmeno troppi Hostewick. Una cosa peculiare fu che non vide neanche l’ombra di un uomo, solo donne sulla trentina e ragazzine appena diciottenni, tutte magre e dagli arti oblunghi.
Al suo passaggio non osavano alzare il capo, salutavano remissive e tenevano gli occhi fissi a terra, come se la donna mulatta che camminava nuda in mezzo al corridoio fosse una divinità ultraterrena da non offendere con occhiate impertinenti.
Nel bagno c’era una grossa vasca riempita con acqua fumante e diversi sali che la tingevano di rosso carminio. Alcune ragazze Hostewick le pulirono il sangue incrostato sulla pelle e le lavarono i capelli, usando una cura e delicatezza che la vampira non aveva mai conosciuto, neanche nella vita mortale.
Quando uscì dal bagno, la donna incinta la aspettava con degli abiti puliti in un’altra stanza.
Era un completo raffinato, stoffa pregiata, color crema e foderato di azzurro: una roba astrusa per lei che era abituata a lunghe gonne per lo più nere, infangate agli orli e tempestate di polvere e sangue.
Guardò la ghoul incinta con disprezzo, senza preoccuparsi di celarlo.
“E dovrei mettermi questa roba?”
L’altra non batté ciglio.
“Il padrone lo vuole. Inoltre, i vostri abiti sono irrimediabilmente malmessi.”
La vampira imprecò tra i denti.
“Irrimediabilmente malmessi” ripeté, soffocando una risata “Come se non lo sapessi.”
Iniziò ad armeggiare con la camicia. Un senso di strana inquietudine la costrinse ad alzare gli occhi sulla Hostewick che, per la prima volta da quando era entrata lì dentro, non teneva il capo chino: la guardava.
Cos’era quella scintilla strana nei suoi occhi chiari?
Ah, lo sapeva. La conosceva molto bene quella sensazione, così come quello sguardo. Troppe volte lo aveva visto quando era una schiava nel Corno d’Africa, troppe volte si era trattenuta dallo sputare qualche bestemmia in faccia a chi le regalava quella velenosa stilla che altri non è che la compassione.
Non ci faceva niente con la pietà degli altri quando sgobbava o veniva frustata. Non ci faceva niente, perché tutto rimaneva nel limbo dell’intenzione, mai messa in pratica, mai resa azione.
Lei continuava a faticare e a collezionare cicatrici e gli altri si sentivano bene per il resto della giornata, solo per aver “provato compassione”.
Li odiava per questo, erano un branco di ipocriti.
In quel momento stava odiando pure la donna Hostewick e se non fosse stata incinta probabilmente l’avrebbe assaltata alla gola, dissanguandola senza permetterle neanche di fare un fiato.
“Succede spesso”
Kaine aggrottò le sopracciglia e le lanciò un’occhiata interrogativa.
“Il padrone ultimamente è molto…”
La vide abbassare di nuovo lo sguardo, celando imbarazzo.
“…vorace, con le donne.”
“Intendi dire che è già successo che strappasse gli abiti a qualche altra vampira nel suo soggiorno?” domandò la vampira a denti stretti “Che usasse un coltellino svizzero sulla sua pelle per il suo diletto? Che la violentasse sul divano e la lasciasse lì, alla mercè dei suoi servi?”
Si morse un labbro a forza. Quella donna non aveva colpe e forse, nel suo piccolo, voleva cercare di alleviarle il malessere psicologico, nonostante fosse una creatura della notte e un mostro per definizione.
Annuì tra sé e sé. Nonostante fosse passato del tempo, riconosceva ancora l’empatia quando la vedeva.
Umani…così deboli ma anche così pieni di risorse…e anche inesorabilmente stupidi.
La voce incerta della donna la riportò nella stanza, sul suo ventre orrendamente rigonfio e le dita affusolate e pallide.
“Il padrone è diverso. Negli ultimi mesi ha dato sfoggio di alcune…stranezze. Alcuni membri della mia famiglia più anziani le chiamano crisi…”
“Che cosa gli succede? Che cosa fa?”
“Usa la violenza, Illustre Kaine. Come con voi poco fa…” un leggero rossore le colorò le guance “Fa indossare degli abiti particolari, qualcuno con dei draghi, altri con simboli strani, altri ancora con croci cristiane.”
Draghi, simboli strani, croci…
“Ogni volta si prende una congrega diversa o un clan diverso, perché lui è il Principe. Così gli ho sentito dire mentre martoriava una delle tante ragazze qui.”
Viscido infame…
Kaine era abituata ad orrori peggiori, li aveva visti e li aveva provocati, eppure quella cosa la sconvolgeva profondamente. Una come lei riusciva a resistere ad attacchi violenti o ferite da taglio, ma un umano quanto avrebbe potuto resistere? Una donna, una ragazzina come aveva visto nel corridoio, quanto avrebbe potuto reggere uno stupro sadico come quello che aveva vissuto lei?
“Un mese fa mia nipote non ce l’ha fatta: non è riuscita a reggere l’amplesso e le conseguenze.”
La donna spostò lo sguardo verso sinistra, portandosi una mano ad accarezzarsi il ventre. Non si sorprese quando, cercando di avvicinarsi, l’altra si ritirò, proteggendosi l’addome.
Un sorriso amaro le affiorò sulle labbra, insieme a un pensiero altrettanto pungente:
Uomo o donna che sia, sarai sempre un mostro, Kaine. Farai sempre paura a chi conoscerà la tua stirpe, perché sarai la predatrice.
“Da quanto tempo vanno avanti queste crisi?”
“Un paio di mesi. Ricordo con precisione quando tutto ebbe inizio: il padrone era tornato da uno dei vostri incontri, fortemente scosso. Non volle vedere nessuno per tre notti, tranne Edgar, il suo primo servo.”
La donna rabbrividì e abbassò il tono di voce.
“Lo sentimmo per tutti i corridoi urlare un nome, lamentandosi e poi arrabbiandosi contro il nulla. È scomparso qualcuno che si chiama Vincenzo?”
Fu un fulmine a ciel sereno. Kaine inspirò profondamente e iniziò a collegare alcuni punti: la perdita, la follia, le crisi. Vincenzo Della Torre doveva essere davvero importante per il fratello, talmente tanto che la sua scomparsa lo aveva gettato nel più completo sconforto, finendo con accelerare il naturale processo di declino di ogni Re o Regina: impazzire completamente fin quando il torpore non è l’unica via per lenire una personalità deviata.
Ma perché proprio il Prefetto? Cosa aveva di importante da portare Abel alla deriva?
Si sistemò la cintura e si voltò verso la donna Hostewick, che le donò un leggero sorriso.
“Stareste molto bene, se vi vestiste sempre così.”
“Non accadrà mai più” sentenziò, lapidaria “Io non ho tempo per questi fronzoli. Ricordati che non sono una nobile del Primo Stato.”
Fece per andarsene, ma qualcosa la bloccò sulla porta. Le parole le uscirono da sole e quando si rese conto di averle dette ormai era troppo tardi:
“Come mai non te ne vai? Perché resti? Non hai paura?”
“Non posso andare da nessun’altra parte. Tuttavia, finchè porto in grembo il prossimo Hostewick, il padrone ha la buona creanza di non sfiorarmi. Ma dopo…”
Per la prima volta lesse il timore negli occhi freddi della serva e, per la prima volta, fu lei a provare compassione. Si sorprese di poter pensare a far qualcosa di benefico per quella creatura, nonostante i numerosi sacrifici per i suoi rituali, il sangue versato, quello rubato: in quel momento sentì di voler far del bene per quella donna.
“Come ti chiami?”
“Marie.”
“Spero che quel bambino sia maschio, Marie.” Kaine si infilò la giacca color crema. La stoffa scivolò graziosamente sulle sue braccia, carezzandole la pelle piacevolmente.
Non vorrei mai vedere mia figlia violentata da un mostro.
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Maggio 2020, Bologna, uscita della stazione Est.
La stazione era poco affollata, se non per qualche barbone che occupava l’atrio, steso su qualche materasso sgualcito. Dalla porta entravano e uscivano quelle poche persone che scendevano da uno degli ultimi treni in arrivo da Prato, un regionale normalmente pieno zeppo di cinesi e pendolari che non si potevano permettere l’alta velocità, accontentandosi di un treno di merda con sedili sporchi e l’odore stantio di urina vicino ai bagni.
Erano stati messi dei nuovi treni circa tre anni fa, puntualmente rovinati dai vandali di turno o semplicemente dagli irrispettosi che occupavano due sedili con gli scarponi oppure, anche peggio, con piedi dai calzini maleodoranti.
Una volta c’era stato, debitamente oscurato, per vedere la plebe. Suo fratello l’aveva considerata una stupidaggine, tuttavia per lui era interessante vedere i mortali alle prese con la loro noiosa vita, soprattutto quella di chi non poteva permettersi il lusso come un membro nobile del Primo Stato.
Era stato lì, si era fermato a Prato per qualche ora, e aveva preso la corsa prima dell’alba, in modo da poter sgommare via una volta arrivato in stazione, a bordo della sua Lamborghini dai vetri oscurati.
Il viaggio gli era servito per constatare che quella parte di stazione era decisamente ottima per incontri con altri dannati, special modo le Ombre, che adoravano il buio più di qualsiasi altro.
Hulio Marinus era stato chiaro nella mail: alle 22.30, nel parcheggio della stazione, lato est. Si era mosso con un’auto poco di lusso per non dare nell’occhio, una Fiat di seconda mano grigia, aveva indossato abiti poco appariscenti; si presentava quindi come un giovane ragazzo sopra i vent’anni, alto e longilineo, dalla pelle ambrata e capelli folti, ricci e nerissimi. Qualcuno, scherzosamente o meno, aveva ironizzato sul colore della sua pelle dicendo che il sole della penisola iberica gliel’avesse baciata; altri, per lo più dame, sospiravano per quella meravigliosa metafora; altri ancora dicevano che negli occhi di pece dei gemelli Marinus ci fosse il pozzo del diavolo.
Lui d’altro canto sogghignava divertito e, nel suo piccolo, pure lusingato. Rimaneva comunque un nobile molto sensibile alle lodi, di qualsiasi tipo.
Aveva evitato di portare la spada, nonostante avesse un pugnale nascosto e ben saldo sul polpaccio.
Non contava di usarlo in situazioni di emergenza: in quei casi il potere del suo sangue gli sarebbe venuto in soccorso, sia in termini di Oscurazione che in quelli di Celerità.
Per un membro della Ghirlanda Spinosa era un atto poco cavalleresco, vero. Il Primo Cavaliere non sarebbe stato contento del suo approccio, ma lui rimaneva pur sempre un Mekhet: ombra, cavaliere, ma pur sempre ombra.
E tale era la persona che stava aspettando.
Selene, un’accolita del Circolo della Megera di Bologna, era una di quelle mekhet che lui definiva ‘nebulosa’, ossia evanescente, ma pur sempre presente: l’emblema perfetto delle Ombre.
Nonostante fosse una semplice arcanista, Selene riusciva a piazzarsi sempre vicino a figure potenti, a carpire informazioni e a mettere pulci nell’orecchio con una nonchalance che faceva invidia a diversi membri del clan.
L’aspetto minuto, unito al volto giovane di appena vent’enne che dimostrava molti meno anni di quanti in realtà potesse avere, rendeva difficile immaginare che dietro a una personcina come lei ci fosse un’attenta pianificatrice e sobillatrice.
Mite e pacata aspettava i suoi nemici cadere, li osservava scorrere nel torrente e rendeva grazie alla ‘Madre’, la sua dea, o quella stramberia che i megeriti veneravano.
Sempre con la stessa tranquillità apparentemente innocente comparve alle sue spalle, con un colpetto di tosse insistente. La prima cosa che vide furono i capelli che gli ricordavano il grano maturo e gli occhi, che nel buio avevano assunto una tonalità di azzurro più cupa.
“Mi avete convocata di gran fretta, Marinus. Non potevate attendere l’eliseo?”
Aveva pure la voce tendente ad essere scambiata per quella di una ragazzina in fase prepuberale.
Nella danza macabra l’apparenza è veramente una brutta bestia.
“Non possiamo parlarne lì. Troppe orecchie potrebbero sentirci…e quello che sto per dirvi non è roba da poco.”
Lei batté due volte le palpebre e annuì leggermente, era il suo tacito segno di continuare.
“Ho bisogno di sapere qualcosa su Kaine Caracciolo, la tua Gerofante.”
La megerita fece un sorrisino.
“Volete sapere se si incontra carnalmente con il Principe? Volete sapere di come il Circolo ha avuto diverse agevolazioni dopo l’ascesa di Abel al trono? Oppure di come fu salvato da lei e da un altro Ventrue, il Prefetto Della Torre…”
“Che è sparito.”
“Che è sparito.”
Hulio si lasciò sfuggire un mezzo sorrisetto.
“Come hai fatto a sapere tutte queste cose? Sei molto abile nell’arte oratoria, immagino.”
“Oppure non siete l’unico ad usare i doni dell’Oscurazione, Hulio Marinus.”
Gli fece un occhiolino fanciullesco.
Hai capito la ragazzina…
“Cosa mi puoi dire sul Principe?”
“A parte che non si vede più agli elisei? Poco…ma potrebbe essere sufficiente. Il Principe sembra aver dimenticato come si sta in una società di dannati, soprattutto per chi ricopre un’alta figura politica come la sua. Quando non c’è, la città non sa come muoversi, e quando c’è…”
“Manda a rotoli i rapporti con le altre congreghe.”
Selene annuì.
“Sapete, alcuni dicono che sia la follia dei Ventrue. Alcuni credono che presto andrà in torpore…”
Hulio fece una risata amara, che sorprese e quasi irritò la giovane mekhet. La vide arricciare il naso e imbronciarsi: anche in quel frangente sembrava proprio una bambina, adorabile quanto insidiosa.
“Non andrà mai in torpore, Selene. A quello piace il potere…e pure tanto. Ma adesso…parlatemi di Kaine, nel dettaglio.”
Nella mente gli comparve la figura del Principe di Bologna, angelico nel suo completo scuro con il quale lo aveva sconfitto al torneo per la mano della Mallari, il volto pallido e gli occhi cerulei, i capelli biondissimi raccolti nel codino basso e quel sorrisetto soddisfatto, velenoso e maligno, una curva leggermente accennata che diceva tutto.
Hai perso, io ho vinto.
Nonostante fosse passato un anno, quel ricordo era vivido, orridamente vivido.
E bruciava ancora.
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Luglio 2020, eliseo di Bologna del clan delle Succubi.
Come ogni anno, anche l’eliseo indetto dai Daeva era arrivato, con tutto il suo sfarzo, i suoi colori sgargianti e i suoi più validi esponenti che intrattenevano gli ospiti con piccole rappresentazioni teatrali, musicali o coreografiche in cui compariva sempre l’elemento della rosa, delle spine e della letalità che un fiore così bello potesse avere.
Soliti clichè insomma, sempre gli stessi discorsi e sempre le stesse metafore.
Kaine, dalla sua sedia posta debitamente a distanza dalle luci della ribalta, osservava l’ex Gerofante, Niccolò Castracani, cincischiare insieme a un’altra Succube, una ragazza dai capelli vermigli e un abito di organza smeraldo, tempestato di pietre preziose sul corpetto.
Se non ricordava male, lei era Ailide Beccaria, facente parte di un gruppo dei nobiletti del cazzo che si divertivano a rispettare le regole del galateo, come se servisse a qualcosa.
Mph.
Niccolò sembrava molto interessato alla sua compagna, talmente tanto da farle venire l’orticaria.
Leccaculo del cazzo.
A pensarci, lei non era tanto diversa. L’unica divergenza era il fatto che lei aveva sfruttato Abel e la sua debolezza per avere dei vantaggi per il Circolo, vantaggi che le avevano permesso di pestare i piedi al Castracani e rubargli la carica di Gerofante, con l’acclamazione dei più alti arcanisti e ritualisti di tutta la congrega.
Lei si era sacrificata, aveva portato lustro alla Megera: lui cosa stava facendo, esattamente?
Gli aveva dato un compito, prendere i fottutissimi diari dell’antenata di quella ragazzina ma tutto sembrava tranne che stesse portando a termine la sua missione.
La risata contenuta della Beccaria la costrinse a ritornare con lo sguardo sul suo volto a forma di cuore, perfetto in ogni suo dettaglio.
Bella come una rosa…destinata ad appassire rapidamente.
Fece aleggiare lo sguardo nella stanza, senza apparente motivo, per poi constatare di star cercando qualcuno che non c’era e che forse era meglio che non ci fosse stato.
Abel era ancora assente e i Daeva non l’avevano presa bene.
Stai mandando tutto a rotoli. Tutto!
Aveva pure temuto, o forse sperato, che Marcus l’antico tornasse e lo facesse rinsavire. Non era successo e lei aveva compreso che non ne aveva neanche l’intenzione. Quando aveva chiesto al Censore di potersi mettere in contatto con il vecchio vampiro, questo l’aveva guardata con un ghigno che non aveva lasciato spazi a interpretazioni.
Stava andando tutto in malora, tutto quello che avevano costruito insieme, come fratelli, si stava sgretolando sotto i loro piedi. Pure lei stava rischiando molto a mantenere la sua posizione, ma cosa poteva fare? Cercava di non sbilanciarsi, tuttavia iniziava ad essere difficile continuare a difendere a spada tratta Abel, non dopo quello che le aveva fatto.
Da quella notte di maggio, si erano incontrati ogni settimana. Kaine voleva credere, sperare, desiderare che ciò che la ghoul Hostewick aveva detto non fosse vero, che suo fratello sarebbe tornato come quello di un tempo, un Principe degno di questo nome.
Poi l’aveva violentata di nuovo.
L’ultima volta che lo vide, cercò di difendersi. Snudò le zanne e cacciò un ringhio, richiamando a sé tutte le forze che il suo sangue potesse permetterle…ma ci fu qualcosa di strano che le impedì di reagire al meglio del suo potenziale. Mentre se ne stava andando, nuovamente ferita nell’orgoglio, aveva sentito, fino alla porta d’ingresso, uno sguardo freddo e insistente correrle lungo la schiena e pizzicarla dolorosamente. Non era tornata più da lui e anche l’ultima stilla di speranza si era dissolta.
Ormai, l’unica cosa che poteva fare era stare a guardare il lento declino del Principe Caracciolo e distanziarsi il più possibile da lui. Magari qualcuno lo avrebbe portato al torpore per una cinquantina d’anni, in modo da sanare la sua potenza di sangue e la sua mente, lo avrebbero tenuto in custodia i suoi Hostewicks fino al suo risveglio.
“Illustre Kaine.”
Si ridestò dal turbinio di pensieri, ruotando di scatto il capo verso destra. Il volto abbronzato di un giovane l’accolse con un sorriso cortese, tanto da farle capire che si trovava di fronte un altro Invictus.
Scivolando lungo la linea del collo e del pomo d’Adamo, trovò un completo elegante ma non troppo appariscente, una spilla con una rosa in una ghirlanda tempestata di spine e una spada sul fianco destro.
Cavaliere della Ghirlanda Spinosa.
Incrociò gli occhi scuri del giovane e capì chi era lo sconosciuto.
“Eccoli, i pozzi del diavolo…” sogghignò “Marinus.”
L’altro sorrise un po’ più ampiamente, annuendo.
“Juan Marinus.”
“Juan.”
Un’immagine comparve nella sua mente, un ricordo dell’anno precedente: uno scontro in quel di Bellaria, il ferale Efesto, contro l’agile e scattante mekhet, che si arrese poco prima della fine dell’incontro. Quella battaglia aveva dato la vittoria ad Abel per la conquista della mano di Contessina Mallari: una vittoria decisa a tavolino, per quel che ne sapeva lei.
“Vorrei parlare con voi, se non vi dispiace. Magari in un posto più appartato.”
“Perché un Invincibile proveniente da Roma dovrebbe parlare con me?”
“Ho qualcosa di interessante da proporvi.”
Kaine inclinò il capo da un lato, studiando l’altro dal basso verso l’alto. Nonostante avesse una naturale ritrosia verso il clan delle ombre, quello era pur sempre un eliseo: nulla le sarebbe potuto succedere.
Seguì Juan in una stanza dai toni rosso-oro che ornavano i divanetti, le pesanti tende e gli arazzi appesi ai muri. Gusto classico Daeva insomma: l’esagerazione e lo sfarzo.
Si abbandonò su uno dei divani foderati di velluto che, nonostante la fattura estetica che non rientrava nei suoi gusti, era maledettamente comodo. Juan si posizionò su quello di fronte a lei, composto e regale come tutti i membri del Primo Stato.
A discapito dell’appartenenza al clan più subdolo di tutta la danza macabra, Kaine doveva ammettere che per essere un mekhet il Marinus, con il gemello, non aveva niente da invidiare a un Daeva, l’antonomasia della bellezza.
Se proprio avesse dovuto trovare una differenza, avrebbe descritto la bellezza del Marinus genuina, mentre quella dei Daeva spiazzante.
Nella prima anche i difetti costituiscono parte dell’essere “bello”, nella seconda semplicemente non esistono e, qualora ci fossero, crollerebbe tutto il castello.
“Il Principe non si vede da tempo.”
Kaine fu colta alla sprovvista. Non si aspettava un esordio di conversazione che andasse a cogliere proprio quel nervo scoperto, soprattutto le sembrava strano partire proprio da lì.
Che fossero banali inizi di conversazione per rompere il ghiaccio?
Preferì deviare la risposta.
“È impegnato, ultimamente.”
“Mh”
Gli occhi dell’altro non l’abbandonavano un momento.
Coraggioso…o sciocco?
Avrebbe potuto dominarlo con una facilità disarmante e farsi gli affari dei Mekhet in beata tranquillità, ma decise di tenere a freno quella tentazione accattivante.
“Impegnato a mandare a monte tutti i rapporti con le congreghe e i clan, da quel che so.”
“Non è certo un segreto.” Sbottò Kaine, con un’alzata di spalle “È evidente.”
“Certo.”
Juan fece un sorriso che non le piacque affatto: era come se fosse pronto a sferrare un attacco poderoso, che infatti non tardò ad arrivare.
“È meno evidente come voi siate stata una parte molto attiva della sua ascesa. Quanto siete amareggiata, mh? Tutti i vostri piani, le congiure, gli omicidi…andati in fumo.”
Lei incrociò le braccia, con una smorfia.
“Siamo dannati, non fatine dei boschi, Marinus. Volete forse dire che siete scandalizzato perché ho dovuto uccidere per posizionare mio fratello al trono di Bologna? Voi lo avreste fatto per il vostro.”
“Giusto. Ma quanti avrebbero ucciso il precedente Principe, Gregorio Monterumici?”
Kaine non battè ciglio. S’impose di non muoversi e mantenere lo sguardo fisso sul mekhet, per non dare cenni di debolezza.
Sono illazioni, illazioni. Non può saperlo, vuole farmi capitolare.
“Questa è un’accusa molto pesante” disse con tono vagamente offeso “Eravate partito così bene, Juan Marinus…”
“Ricordatevi che parlate con un’ombra: difficilmente ci esponiamo così. Se lo facciamo, è perché abbiamo delle certezze.”
Lo vide sporgersi verso di lei, con espressione trionfante. Non poteva certo sapere che i doni di Auspex, il potere malefico dei Mekhet, permetteva loro di carpire informazioni di un oggetto, cosa avesse visto o sentito, non poteva neanche sapere che le risorse dei due gemelli erano abbastanza alte da permettere la riesumazione del cadavere dell’amante di Gregorio, l’umano che aveva posseduto per compiere l’omicidio. Era bastato un lembo di abito, uno straccetto non consumato e ai due Marinus si era aperto il vaso di Pandora: avevano visto lei, avevano visto il momento in cui la dominazione prendeva atto, avevano visto tutto ciò che era successo mentre la sua volontà era imprigionata in quell’ammasso di carne flaccida, dall’amplesso sessuale con il Monterumici fino all’incendio.
Non aveva voluto crederci, ma la descrizione era talmente piena di dettagli che alla fine dovette cedere all’evidenza: era stata fregata, alla grande.
Ma perché allora non erano andati a dirlo ai quattro venti? Perché non denunciarlo ai Gangrel? L’avrebbero messa sulla gogna e probabilmente avrebbe trovato rapidamente la morte ultima per mano di qualche seguace accanito e nostalgico del Monterumici.
“Quello che vogliamo, Kaine, è semplice. Il Principe Abel ha solleticato i nervi a diversi dannati, alcuni abbastanza in alto da richiederne la sparizione. Voi siete quella che più gli è stata vicino, quella che più lo conosce e di cui probabilmente si fida: sarete la nostra spia. Fatelo, poiché vi reputo abbastanza intelligente da capire che se doveste rifiutarvi…”
Fece un gesto esplicativo con la mano seguito da un fischio, a simulare qualcosa che affonda. In quel momento la Ventrue comprese di essere alla mercè di due subdoli, meschini e luridi mekhet, senza poterci fare niente.
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Quando la megerita lasciò la stanza, Juan tirò un sospiro e si stravaccò sul divanetto in un modo che avrebbe fatto inorridire i Gran Maestri dell’Accademia del Buon Gusto. La conversazione aveva portato agli esiti sperati e ne era soddisfatto: ora sarebbe venuta la parte difficile. Spostò lo sguardo verso un angolo della stanza e chiese:
“Che ne pensi?”
La figura del fratello gemello comparve improvvisamente. Aveva insistito per partecipare, anche se oscurato, per sondare le reazioni della megerita senza essere visto.
“Spero che accetti.”
“Deve farlo.”
Anche perché altrimenti è una vampira morta.
“È questione di tempo, fratello: presto ci prenderemo la nostra vendetta”
Hulio annuì.
“Te lo dissi, Juan, che quel sorrisetto glielo avremmo levato dalla faccia, prima o poi.”
[Continua….]