La Corte

Ciao a tutti!
Torna l’appuntamento narrativo in cui questa povera disgraziata (cioè io), tenterà di spiegare alcuni aspetti dell’ambientazione di Vampire the Requiem, della White Wolf, oggetto di molti live dell’associazione Camarilla Italia.

Siamo giunti all’ultimo dei cinque clan presenti nel gioco: dopo le i Mekhet, i Ventrue, i Gangrel e i Nosferatu, arriviamo ai Daeva, o le Succubi, noti dai giocatori per essere ammalianti e bellissimi oltre ogni misura.
Amanti degli eccessi, i Daeva vivono “al massimo” in ogni istante, come se temessero di perdere del tempo prezioso.

Ma senza indugi, vi lascio alla lettura dell’articolo, sperando che vi piaccia.
Il prossimo mese parlerò anche dell’ultima Congrega, l’Ordine del Drago, i misteriosi massoni che spesso sono comparsi in questi racconti…

Sofia Starnai
Gruppo letterario Camarilla Italia
http://www.camarillaitalia.com

****************************

Rifugio della Lancea Sanctum, Roma, Febbraio 2016.

Edoardo Borgia stava in piedi accanto alla finestra a guardare in modo assente il colore scuro che era calato ormai da ore sulla capitale italiana. Lei, dal suo letto a baldacchino, ne studiava il profilo, scivolando dal naso, lo zigomo sinistro, l’osso della mascella fino a soffermarsi sui pettorali e il vago accenno di addominali che aveva sullo stomaco.
Sospirò.
Un giovane ragazzo che sarebbe rimasto così per l’eternità, niente più, niente meno.
E, per inciso, era pure troppo vestito per i suoi gusti.
Lo chiamò per nome, con voce zuccherosa, lo incitò a raggiungerla in quello che da qualche mese era diventato il loro talamo, un ritrovo segreto nella stanza a lei assegnata dalla Lancea Sanctum. Ne aveva una pure lui, ma Elena Barberini voleva consumare la sua passione in ambienti esteticamente più attraenti di una spoglia stanza priva di luce e lenzuola di seta.

“Faccende da succubi” le aveva detto lui scrollando le spalle.

Non poteva dargli torto. Era risaputo che il sangue dei Daeva a cui apparteneva fosse molto attaccato al senso estetico e alla bellezza in generale: non a caso, ogni vampiro che avesse avuto l’onore di essere abbracciato da un Daeva diventava ammaliante, accattivante, in una parola bellissimo. Proprio per questa condizione, tutti i membri del clan amavano circondarsi di cose altrettanto belle, indipendentemente dal loro lignaggio: Invictus, Lancea Sanctum, Terzo Stato, non faceva differenza, tutti avevano questa fissa, declinata secondo i gusti.
Lei, per esempio, adorava lo stile ottocentesco: la sua stanza ne era una riprova. Si era circondata di tendaggi, dipinti, mobili intarsiati del legno più pregiato in modo da riprodurre una tipica stanza di una donna nobile francese del periodo, imitando a tratti Maria Antonietta, magari evitando di fare la stessa fine.

– Dai, Edoardo. – si alzò a sedere riemergendo dai due grossi cuscini, lanciandogli un’occhiata inequivocabile.

Il giovane mekhet non riuscì a non incrociare quello sguardo e, con un gesto quasi stizzoso, le diede le spalle.

– Oh, ma insomma, cosa c’è che non va oggi? –

Si rese conto di aver appena fatto quella domanda con un tono lamentoso e pure infantile. Quell’atteggiamento le dava i nervi e non solo quando era lui a mostrarlo, ma chiunque. Perchè negarsi i piaceri? Perché tutte quelle barriere venivano erette solo per nascondere la pura essenza delle passioni? Perché non farle fluire liberamente?
Il volto del Borgia tornò di nuovo nella sua visuale, bello e innocente, proprio come la prima volta che lo aveva visto. Era diventato il suo bersaglio non appena aveva messo piede nella capitale, un po’ perché quell’aria da novellino tutto impostato le faceva perdere la testa: quelli erano i suoi preferiti da traviare, giovinetti neofiti dall’aspetto casto e posato. Adorava il corteggiamento e adorava il momento in cui si liberavano dei muri mentali che si auto imponevano e si lasciavano trasportare dai desideri più reconditi, mentre lei faceva lo stesso con i propri: li sfruttava, sì, e lo faceva per vivere ogni volta una passione più travolgente della prima, temendo ogni istante che fosse l’ultima.
Quella notte, però, il mekhet la stava tirando per le lunghe ed Elena iniziava a dare cenni di cedimento.
Quando incrociò di nuovo lo sguardo del vampiro, la donna si rese conto che c’era gravità nei suoi occhi, era talmente serio che aveva contratto i muscoli della mascella, irrigidendo persino le ossa del collo.

– Siete una donna sposata, Elena. – mormorò, piatto – E sia mai che io rechi disonore a Ezio Borghese. –

– Mon dieu!

Si lasciò sprofondare nuovamente tra i cuscini, fingendo un mancamento.

– Quel matrimonio è falso, quante volte devo dirtelo? I vampiri non si sposano per amore. Solo politica, sempre quella. –

Scostò le lenzuola e scese dal letto, rapida come solo una Succube avrebbe potuto fare. Nel muoversi verso di lui, tuttavia, decise di procedere con lentezza, sinuosamente, in modo che lui potesse guardarla bene. Fece ondeggiare piano i fianchi e piroettò leggiadra, mostrando tutta la sua figura.
Sapeva che Edoardo la stava guardando, riusciva a percepire i suoi occhi indagatori che le solleticavano le clavicole, i seni, il ventre, la linea delle gambe e ciò che stava nel mezzo.
Ciò che vedeva il giovane vampiro era una donna sotto i trent’anni, nuda, con pelle d’alabastro liscia come la seta, perfetta in ogni punto, dalla punta dei capelli corvini fino agli alluci. Il viso, piccolo e a forma di cuore, sembrava impreziosito dagli occhi vermigli che, attenti e seduttori, si posavano su chiunque le si parasse dinanzi, sfoderando con i suoi bersagli il loro potere ammaliante. Quelli, insieme alle labbra carnose leggermente corrucciate e le movenze del corpo slanciato, facevano la magia di Elena Barberini, con l’aiuto del potere delle Succubi, Maestà. A nulla servivano i tentativi di distogliere lo sguardo quando entrava nella stanza, niente e nessuno potevano non notarla e non ascoltarla: tutti, quando lei decideva di far sfoggio dei doni del suo clan, pendevano dalle sue labbra.
Quel potere era estremamente utile quando doveva fare sermoni nei pubblici elisei: sapeva bene che le questioni clericali ammorbassero molti dei presenti e lei, un po’ per sadismo, li costringeva ad ascoltare, oltre al gusto personale di mostrare la sua forza dialettica.
In quel momento, tuttavia, non stava usando Maestà, ma un altro formidabile potere che aveva imparato negli anni a sfruttare: la seduzione. Il corpo femminile, il suo, nella perfezione ancestrale di cui era permeato, a volte era molto più eloquente di qualsiasi altra cosa, se sfruttata con chi lo concepiva come una debolezza.
Se ne stava lì, in piedi, nuda ma sicura di sé, di fronte a un giovane mekhet che non riusciva a nascondere il suo apprezzamento. Gliela leggeva negli occhi l’avidità con cui si beveva ogni centimetro della sua pelle, la cupidigia che montava in lui e lo incendiava pian piano, l’istinto di abbandonarsi e perdersi nella passione: era uno spettacolo che incantava pure lei, soprattutto perché era conscia di essere la causa scatenante, quella goccia di troppo che avrebbe fatto esondare un fiume burrascoso e imbrigliato in stretti argini.

– Falso? – mormorò il Borgia, dubbioso.

– Falso– replicò la Succube, avvicinandosi ulteriormente.

Gli prese una mano e la fece posare su un suo fianco.

– Questo, invece, è vero. –

Lo vide rabbrividire e deglutire. Un sorrisetto compiaciuto si dipinse sulle labbra carnose: stava riuscendo nel suo intento. O almeno, così credeva.

– Come potete dire che questo sia vero? –

Il mekhet ritirò la mano, bruscamente.

– I vampiri non si sposano per amore, i matrimoni sono falsi…e questo? Questa…cosa…che facciamo io e voi? –

– Edoardo, non puoi paragonare… –

– E invece sì! –

Le piantò addosso due occhi verdi intrisi di fervore.

– Siamo morti, Elena. – sibilò – Mostri. E i mostri non provano sentimenti. I mostri non…copulano. I mostri non provano piacere. Tutto questo…è falso. –

D’improvviso, qualcosa si ruppe, molto silenziosamente. Elena Barberini s’irrigidì e rimase in muta per la prima volta in settant’anni di non vita, incapace di formulare una risposta.
Poi, repentinamente, gli rifilò uno schiaffo.

– Hai sentito dolore? – domandò, tagliente – Credi che sia falso? Eppure lo hai sentito, in questo momento. E’ successo. –

Lui non rispose, si limitò a massaggiarsi la guancia destra.

– Siamo io e te, Edoardo. Hic et nunc. – continuò la donna – In questa stanza, in questa fredda giornata di febbraio, anno domini 2016. E tu stai ancora cercando di nasconderti dietro un dito! –

Posò con delicatezza una mano sul suo collo, facendola scivolare progressivamente verso la spalla, il gomito, l’avambraccio e il polso. Nel mentre, la sua arringa non si placò:

– E’ inutile resistere, lo sai. Tu sei desideroso di sprofondare negli abissi della passione, quella che travolge anche me, per uno strano motivo, la trattieni, la imprigioni… – sospirò, malinconica – Perché tutti voi fate così? Perché non accettare i desideri più reconditi che albergano nel vostro essere? –

Con un dito, gli carezzò la zona della carotide.

– Che sia gola… – il tocco divenne una leggera artigliata sul petto – Ira… – scivolò sull’addome, arrivando al ventre, fermandovisi con apparente innocenza – Lussuria… –

Accolse il fremito dell’altro e, abilmente, si staccò, dirigendosi verso il letto a baldacchino.

– O tutti gli altri…voi li tenete imprigionati. Non li lasciate andare…nonostante questi vi animino quando vengono solleticati. –

Si voltò e lo indicò, inquisitoria.

– Siete voi, i falsi. Tu, sei il falso, Edoardo. Puoi negare che mi vuoi e che tu stia lottando contro l’impulso di spogliarti e venire a farmi compagnia? –

A quella domanda, non giunse una risposta verbale.
Dopo un’ora, quando ormai stava giungendo l’alba, Elena Barberini era sola nella stanza e pensierosa guardava il cielo schiarirsi dalla finestra.
Ogni volta che cedeva al suo desiderio profondo, dopo si sentiva maledettamente malinconica e non riusciva a non pensare al futuro che le sarebbe spettato, quello di cui il suo sire le aveva parlato sin dalla notte in cui era rinata come vampira.

Perdiamo l’umanità molto più rapidamente, dolce Elena. Sentimenti, emozioni, passioni…tutto si dissolve e la bellezza di cui siamo portatori non diventa altro che un guscio vuoto.

Vivere sulla scia degli eccessi, questa era la soluzione: risvegliare quegli sprazzi di umanità, anche negli altri dannati, per poterli vivere e cibarsene, un po’ come un’ambrosia dolce e mai sufficiente per saziare una sete straziante e logorante.
Per questo non comprendeva coloro che cercavano di nascondersi da sé stessi: non capivano la fortuna che avevano, non capivano di avere più tempo!

Cosa accade quando un Daeva non…prova più niente?

Il suo sire, dopo quella domanda, si era scurito in volto.

Non lo so” aveva risposto “Non ci sono testimonianze di Succubi che arrivano a quell’infausto stato. Semplicemente scompaiono.

*************************

Marzo 2016, eliseo di Milano

Ludovico Sforza, dritto e impettito, se ne stava seduto sul suo scranno mentre nella sala si presentavano diversi avventori, alcuni vennero a porgere i saluti di rito, altri si dileguarono speranzosi di non essere notati.

Sciocchi.

Lui notava tutto. L’eliseo milanese quel mese lo aveva gentilmente ospitato lui in uno dei suoi tanti possedimenti, figuriamoci se non si era premurato di sistemare dei controlli fuori e dentro le mura della grande villa nel centro della città.
Storse il naso: la maleducazione di certi elementi lo infastidiva, ma stava imparando a conviverci. D’altro canto non potevano essere tutti Invincibili: il Primo Stato è un privilegio per pochi, così come le regole di etichetta, alle quali lui era stato formato sin da quando era diventato paggio, molti anni fa. A quel tempo i Gran Maestri dell’Accademia Buon Gusto proliferavano e il galateo era rigido e molto considerato: sbagliare una nomenclatura poteva significare una severa punizione, se andava bene qualche amputazione, se andava male…

Non lo sapeva, lui non ci era mai arrivato.
Era sempre stato un eccellente oratore, cortese e cordiale, cavaliere di spicco che per le sue doti era diventato il Primo Cavaliere dell’Ordine cavalleresco della Ghirlanda Spinosa e aveva tirato su generazioni di combattenti. Ultimamente, però, si stava confrontando con un declino del rigore e dell’educazione tipica dei nobili Invincibili: la cosa lo irritava, irrimediabilmente.
Si sistemò il farsetto lavorato del colore delle Succubi, un rosso sanguigno intenso e, alzandosi in piedi, prese la spada per fissarsela alla cintola.

– Vostra grazia. –

Riconobbe l’accento vagamente spagnoleggiante di uno dei suoi, Juan Marinus, proveniente dalla sua destra. Ruotò il capo e, inarcando un sopracciglio, gli fece cenno di continuare.

– Il Gerofante di Bologna, Niccolò Castracani, desidera porgere i suoi omaggi. –

– Fatelo venire, dunque. –

Il giovane cavaliere annuì e si diresse verso l’entrata della sala, dove attendeva il Daeva bolognese.
Ludovico ne studiò la figura longilinea, soffermandosi sui suoi molteplici tatuaggi tribali che gli attraversavano le braccia in un disegno che, differentemente dalle opere rozze dei Gangrel o di qualsiasi altro megerita, riusciva ad essere esteticamente soddisfacente, con proporzioni perfette e tratti delicati.
Il nobile cavaliere non andava matto per il Circolo della Megera, ma Castracani incontrava la sua approvazione solamente per il clan delle Succubi che accomunava entrambi, oltre al fatto che era l’unico a mostrargli quella sana educazione e rispetto che ci si aspetta dall’ultima ruota del carro del Terzo Stato: il fatto che fosse venuto a porgere i suoi saluti era una riprova soddisfacente.

– Illustre Niccolò. –

– Vostra grazia. –

Il megerita si esibì in un inchino rigido che, seppur pieno d’incongruenze, fu apprezzato dallo Sforza.

– Spero sia andato bene il viaggio. –

– Come sempre. Milano mi accoglie a braccia aperte ogni volta. –

Juan Marinus, rendendosi conto di essere di troppo, chiese il permesso di congedarsi. Dopo averglielo accordato, lo Sforza fece aleggiare lo sguardo sul profilo del mekhet e poi tornò sul megerita il quale, stranamente, pareva aver colto il suo pensiero:

– Sprecato per essere un’ombra, vero? –

Il Primo Cavaliere annuì. Juan e Hulio, i due gemelli Marinus, con i loro capelli ricci e nerissimi, la pelle baciata dal sole della penisola iberica e gli occhi d’ebano, sarebbero stati dei Daeva perfetti, se solo un Marinus non li avesse abbracciati. Probabilmente, se li avesse incontrati sulla sua strada quando ancora i loro cuori martellavano nei loro petti, li avrebbe abbracciati lui stesso.
Peccato che in tutta la sua esistenza non si era mosso dall’Italia e, principalmente, non si era mosso dalla Lombardia.

– La vostra compagnia preferita non è presente questa sera? –

– Sta colloquiando con una Succube dell’Ordine del Drago. – rispose lo Sforza leggermente infastidito – E forse dovrei andare da lei per ricordarle di porgere i suoi saluti agli ospiti Invincibili delle altre città. Vogliate scusarmi, Niccolò. –

Non gli ci volle molto a trovarla. Il suo abito smeraldo, con un’ampia gonna a ruota, risaltava come la pietra preziosa a cui era ispirato, così come i capelli che le ricadevano morbidi sulla schiena ricordavano le fiamme letali di un fuoco vivo, facendo un contrasto netto con la pelle d’alabastro.
Ailide Beccaria, membro di spicco dell’Accademia Buon Gusto e Iudex di Milano, era impeccabile dal punto di vista del portamento, come di fatto ci si aspetta da un Invictus del suo lignaggio.
Tra tutti, forse, lei era l’ideale perduto di nobiltà che faceva tornare lo Sforza indietro nel tempo, quando l’etichetta era il baluardo del Primo Stato e il portamento sinonimo di grande prestigio.
Tuttavia, negli ultimi tempi anche lei si stava progressivamente traviando, soprattutto perché spendeva molto del suo tempo a discorrere con quello lì, un dannato che riceveva la sua attenzione solamente perché membro del suo clan, sporco di sangue e pieno di cicatrici che, si diceva, si procurasse da solo.
Per l’ennesima volta dovette farglielo notare e lei, con un sospiro posato, replicò:

– Mi sta aiutando a decifrare i diari della mia parente, Ludovico. –

Già, i diari di Beatrice Beccaria. Si diceva che ci avesse vergato cose strane su energie, spiriti e altre diavolerie che attiravano dragoni e megeriti come se fossero miele per orsi.

– State dietro a quei cartigli da ormai due mesi. Non credete che vi siano altre questioni di cui occuparvi? –

Le folte ciglia di lei sfarfallarono per due volte e, mentre gli donava il profilo sinistro, la luce della stanza toccò i rubini incastonati sulle rose della collana che le aveva donato. Un regalo perfetto che risaltava su quella Daeva che, ai suoi occhi era speciale rispetto alle altre. Non era lascivia la sua, nessun pensiero lussurioso si era mai insinuato nella sua mente quando passeggiava con lei nei giardini di una delle sue tenute fuori dal caos milanese: semplicemente aveva piacere di ammirare cose belle, senza sfiorarle neanche con un dito.
Ailide, nella sua giovinezza, semplicità e cortesia che le davano quel punto in più rispetto a tutte le altre Succubi, era uno dei suoi tesori più preziosi, che custodiva con avarizia.
La sua, fondamentalmente, non era gelosia perché ella s’intratteneva, nel senso cortese del termine, con altri uomini, ma era una pulsione viscerale di possesso: era sua, una cosa sua, un tesoro che non aveva intenzione di condividere con nessuno, che solo lui poteva contemplare.
E mentre rifletteva su come liberarsi di quei maledettissimi diari, Juan Marinus gli fu nuovamente vicino per mormorargli che erano arrivati degli strani individui che necessitavano della sua attenzione.

**************************

Gli occhi cerulei di Niccolò Castracani seguirono l’andamento rapido dello Sforza, fino a quando non giunse dallo Iudex, Ailide Beccaria. Quasi contemporaneamente, la Succube dell’Ordine del Drago con cui stava parlando, e di cui non ricordava il nome, si dileguò come un fulmine, cosa che lo fece sghignazzare di gusto.

Aah, Ludovico, Ludovico. La gelosia è una brutta cagna, e voi non vi degnate nemmeno di nasconderla.

Lo aveva fatto di proposito, sì; non appena aveva visto la protetta del cavaliere colloquiare con il dragone, si era precipitato a fare la spia, ma non solamente per vedere il siparietto del fratello maggiore protettivo e morboso: in realtà il suo fine era quello di impedire ulteriori contatti tra la Beccaria e i maledettissimi dragoni, più specificatamente tra loro e i diari dell’antenata della giovane Succube.
Doveva fare in modo di convincere quella ragazzina a darglieli, a qualsiasi costo.
Eccoli lì, comunque, Ludovico Sforza e Ailide Beccaria, a braccetto, come in una scena di un ballo ottocentesco, visti gli abiti a tema. Lei in verde con dettagli rossi che rimandavano al sangue delle Succubi, lui austero nel suo farsetto lavorato, rosso e oro, la lunga spada al fianco, mai estratta in un eliseo.

Che cazzo la terrà a fare, mi chiedo io.

Il Primo Cavaliere era un dannato anziano, si diceva che calcasse le scene da immortale da circa duecento anni, esclusi i periodi in cui si era ritirato per chiudersi in un torpore della durata di almeno un lustro. A guardarlo ovviamente non mostrava alcun segno della sua vera età, anche se diversi fili argentei che sbucavano dalla lunga chioma ricciuta, opportunamente raccolta in una coda bassa, rivelavano che il momento dell’Abbraccio era giunto non prestissimo rispetto a molti altri.

– Invidioso delle roselline? –

Niccolò fece una smorfia.

– Quel soprannome mi fa schifo, eppure lo sfoderi ogni volta che puoi. – replicò sbuffando.

La ragazza bruna fece un sorrisetto che scoprì i denti bianchi. Kaine era il suo braccio destro, una delle poche Ventrue con cui andasse d’accordo perché, stranamente, non gli pestava i piedi e lui non faceva altrettanto con lei.

– Guarda che qui tutti chiamano il clan delle Succubi “Le Rose”. – continuò l’altra, sardonica – Non festeggiate il mese di maggio con elisei a tema proprio in concomitanza con la fioritura dei boccioli? –

Fastidiosamente corretto.

– Quello è un soprannome per le donne, che possono fare la trafila del “sono un fiore ma pungo perché ho le spine” – sbottò il Gerofante. – E per gli Invincibili checche. –

Scosse la testa, frustrato. A questo si era ridotto il clan? Questa era l’immagine che inviava agli altri? Un giardino di rose, che risplendono per un mese soltanto, un branco di damerini e finti esteti, bambole di cera scolpite, prive di spessore…
Nessuno li prendeva più seriamente. Nessuno capiva che un altro dei loro soprannomi era “Incubo”, e che non fosse un caso.
Strinse un pugno, furente.
Aveva voglia di picchiare qualcuno. Sarebbe uscito da lì e si sarebbe infilato in una discoteca nei paraggi: tra uno spintone e l’altro si sarebbe spurgato del fuoco che gli saltellava nello stomaco.

Fu un’altra sensazione, tuttavia, a bloccare i suoi bollenti spiriti, qualcosa di familiare che lo fece acquietare e assumere un atteggiamento di attenzione vigile. Kaine, che ormai riusciva a carpire certi segnali, gli si fece più vicina e, mantenendo lo sguardo sulla stanza e sulle diverse entrate, mormorò:

– Che succede? Cosa dice Alissa? –

Il Daeva scosse la testa e la treccia castana ondeggiò con seguendo il movimento. Alissa non diceva niente e la cosa gli pareva strana, visto che aveva palesemente cercato di mandargli un messaggio mentale come soleva fare. Cercò di richiamarla, ma lei non si fece vedere, sembrava aver staccato la connessione.
Il Gerofante aggrottò le sopracciglia e scrollò le spalle. Avrebbe scoperto al rifugio cosa voleva dirgli il suo spirito elementare dell’aria, una ninfa che aveva nutrito per due anni e con cui solo da pochi mesi aveva stretto un patto, un legame, in modo che il suo corpo fisico diventasse la dimora di Alissa, una finestra per affacciarsi al mondo; mentre lui d’altro canto poteva usufruire dell’aiuto cospicuo dei poteri di quell’entità: gli bastava evocarla e lei appariva con poderose raffiche di vento, che avrebbero potuto diventare tornadi se solo glielo avesse ordinato.
D’un tratto, alla soglia principale del salone si palesarono tre figure, due uomini e una donna. Tutti e tre avevano una maschera rossa addosso, finemente elaborata e traforata, cosa che fece rimuginare per qualche istante il Castracani.

– Lunga notte! – la voce trillante della donna straniera irruppe nella sala, e immediatamente tutte le attenzioni furono rivolte verso di lei, quasi per magia.

Mh, mormorò il megerita, sangue di Succube, potrei giurarci.

Lo Sforza, in tutta la sua compostezza, gonfiò il petto e fece la domanda che tutti si stavano ponendo: chi siete?
La donna, soppesando la figura dell’Invincibile, si presentò con un inchino teatrale e a tratti anche troppo eccentrico.

– Noi siamo la Corte delle Maschere Rosse. –

Rabbrividì. Corte? Aveva sentito bene?
Le Corti non esistevano più da tempo, ormai. Le Succubi avevano smesso di riunirsi intorno a un anziano mecenate, il rito del Vinculum non si praticava più e ognuno andava per gli affari suoi, scontrandosi spesso e volentieri con gli animi individualisti ed egocentrici di altri membri del clan.
Niccolò lanciò un’occhiata ai tre figuri che stavano disquisendo con lo Sforza e la Beccaria, la quale sembrava pendere dalle loro labbra.

Cazzate. Io non mi sottometto a un vecchio bacucco, ho altro da fare.

*************************

Aprile 2016, Eliseo di Roma.

– Che meravigliosa città, la capitale. –

Elena Barberini, a braccetto con la novità del momento, annuì convinta. Da Nord a Sud, la Corte delle Maschere Rosse era arrivata anche a Roma e lei, membro del clan delle Succubi di spicco, voleva fare bella figura e magari guadagnarsi un accesso in quel nuovo consesso.
Aveva da sempre desiderato che tornasse una Corte che riunificasse il sangue delle Rose da tempo troppo diviso, indipendentemente dal fatto di bere il sangue di un vampiro anziano. Sì, il rito del Vinculum non le andava troppo a genio: una stilla di troppo e si sarebbe ritrovata a vivere come appendice, un surrogato, dell’anziano, perdendo di fatto tutta la sua libertà fisica e mentale; eppure sapeva che per rendere una Corte unita c’era da sempre stato il bisogno di un patto del genere, questo per via del sangue egocentrico a cui apparteneva. Ogni Rosa sognava di primeggiare sulle altre, non nel senso Ventrue del termine, a loro il potere importava relativamente: ciò che contava era risaltare in mezzo alla malerba, come un fiore tra la gramigna.
Per questo aveva accolto con piacere la notizia di una nuova Corte: sperava che il clan Daeva potesse tornare in auge come un tempo e che, con un fronte unito, avrebbe potuto piegare gli altri, come ci si aspetta da potenti Succubi.
La sua compagnia, la donna che si faceva chiamare semplicemente “la Dea”, era l’anziana e capostipite della Corte, una vampira incredibilmente bella, anche per gli standard Daeva. Insieme, una mora e l’altra biondissima, costituivano una coppia ben’assortita, che faceva fantasticare la Barberini su un suo possibile ruolo di spicco all’interno della Corte, magari l’ancilla prediletta.

– Le Succubi ancora non si fidano, Elena. –

Il volto della Dea si era scurito e le sopracciglia corrugate.

– Evidentemente non capiscono l’importanza di avere di nuovo una Corte – asserì convinta la Santificata – Alcuni forse sono troppo giovani per averne memoria. –

– Può essere. Eppure, è bene che io rimedi. –

Elena represse un moto di stizza. A volte malediva i suoi consanguinei: così ottusi da non capire l’importanza che tutto questo aveva per il futuro del loro clan. Aveva inviato lettere in tutta Italia per cercare di spiegare i vantaggi della Corte, ma non aveva ricevuto risposte: alcuni Daeva l’avevano ignorata, altri erano semplicemente spariti dalla vita pubblica.
Come bambini capricciosi, aveva bofonchiato stracciando una comunicazione da parte di un servo di Luigi Borbone, Succube Invincibile che cortesemente aveva declinato l’offerta di unirsi alla Corte, decidendo di ritirarsi nei suoi rifugi privati.
Che senso aveva andarsene così, senza neanche cercare di scoprire cosa la Dea avesse da offrire?

– Organizzerò un ricevimento. – disse la vampira anziana – A maggio. E’ o non è il mese delle Rose? –

***************************

Maggio 2016, Teatro degli Industri, Grosseto.

Il teatro, visto esternamente, sembrava un palazzo come tanti altri, che si ergeva silenzioso in una delle vie lastricate del centro della città a sud della Toscana, tra le paludi della Maremma ormai bonificate da tempo dal fu Leopoldo II di Lorena.
Niccolò fece una smorfia. Quale posto migliore per un ricevimento della Corte delle Maschere Rosse? Un teatro, ovviamente, laddove tutto è finzione.

Messaggi subliminali?

Un gruppetto di ragazzi, con le loro “c” aspirate, gli passò di fianco, facendo un commento sui tatuaggi. Lui, glaciale come una stalattite di marmo, rifilò loro una stilettata con lo sguardo, che li mise presto in fuga.
Gli stavano sulle palle, i toscani.
Si vantavano tanto dei loro Dante, Petrarca e Boccaccio, Galilei e Leonardo Da Vinci, ma il loro tanto paventato “italiano” era una cacofonia di suoni aspirati, senza un dialetto a riunificarli, senza un filo logico.
Un po’ come i Daeva, tutto sommato.

E poi, tutto è nato dalla Scuola Siciliana.

Ogni volta che esprimeva il suo disappunto, gli altri dannati lo guardavano storto. Era così strano che lui, un megerita, fosse appassionato di storia della letteratura e poesia italiane?
In ogni caso, mentre rimuginava contro la terra delle bestemmie e del buon vino, entrò nel teatro.
L’atrio non era eccessivamente spazioso, ma si divideva in due stanze: l’accoglienza con il guardaroba e una specie di anticamera, con divanetti e due pesanti tende rosse a sancire l’ingresso in platea. Poco distanti, c’erano delle scale rifoderate di uno spesso tappeto rosso conducevano presumibilmente ai palchetti.
Quando scostò le tende, le luci soffuse gli permisero di vedere una lunga schiera di poltroncine rosse che arrivavano fino alla buca dell’orchestra, da cui proveniva una leggiadra melodia che non riconobbe. Lungo le mura intarsiate d’oro e bianco con arabeschi floreali, tre piani di palchetti circondavano la platea, in ordine crescente di larghezza.
Niccolò lanciò un occhio sul terzo piano, il “loggione”. Le ampie finestre, ora vuote, un tempo avevano ospitato la gente del volgo: poteva immaginarseli, lassù, contadini e altra gente che si sbracciava per avere una minima visuale; probabilmente qualcuno c’era pure caduto da lassù ed era irrimediabilmente morto.
Sì, era un cultore anche dei teatri, della storia dell’arte in generale: per lui la bellezza risiedeva lì, nella conoscenza delle opere passate, preservate e custodite nel presente.
Era un megerita, ma rimaneva pur sempre un Daeva.
Si avvicinò al palco illuminato, su cui erano presenti diverse facce note. Lo Sforza e la Beccaria risaltarono subito ai suoi occhi per il loro appariscente vestiario, subito dopo nel suo campo visivo entrò la Barberini, con la quale si era scontrato diverse volte per questioni religiose e poi ovviamente loro, la Corte.
La Dea se ne stava tutta impettita a disquisire di qualcosa, stretta nel suo abito di satin color borgogna e un fiore purpureo che le adornava i capelli.

– Niccolò, siete giunto dunque. –

Riconobbe la voce dalla sua compostezza nei toni. Ailide Beccaria si era avvicinata e lui non se ne era nemmeno accorto.

– Vostra grazia, perdonatemi, non vi avevo vista. –

La giovane si portò una mano alla bocca per soffocare una leggera risata.

– Non vi preoccupate, è normale. – la vide guardare la Dea e annuire – E’ bellissima, no? –
– Terribilmente. –

Non poteva negarlo.

– Sbaglio o ci sono meno Succubi del previsto? –

Ailide annuì. A quanto pareva alcuni non volevano neanche vedere la Corte e si erano chiusi nei loro rifugi, in attesa che questa novità si estinguesse, come tutte le cose nuove che accadono nel clan delle Rose.
Quando tornò a guardare la Dea, si rese conto che i suoi due scagnozzi erano spariti.
Magari si stavano occupando della sicurezza esterna.
Già che la Beccaria è lontana da quella piattola del dragone potrei chiederle dei diari…
Aprì la bocca ma non vi uscì alcun suono.
Accadde tutto molto rapidamente e intensamente, talmente tanto che gli si bloccò ogni intento, ogni movimento, ogni pensiero. Rimase bloccato, letteralmente.
La voce di Ailide che lo chiamava giunse come se fosse ovattata.
Non riusciva a rispondere: c’era qualcosa che, nel profondo, lo graffiava, come se dentro di lui vi fosse qualcosa che con gli artigli lo stesse corrodendo e non voleva uscire.
Dopo un primo momento di sorpresa, subentrò il panico.
Lui sapeva.

Alissa?!

Un grido soffocato echeggiò nella sua testa. Poi una parola:

GIARDINO!

S’impose di muoversi e s’impose di farlo velocemente. Sgusciò via dalla stanza come una saetta e si catapultò fuori dal teatro. Un’altra fitta dolorosa lo costrinse a piegarsi, nuovamente Alissa gridò assordandolo per qualche istante.
Non c’erano giardini al Teatro degli Industri, ne era certo. Prima di partire per la Toscana si era ampiamente documentato, ma la struttura sorgeva accanto alle mura medicee, su cui era stata costruita una fontana con un cinghiale al centro, una statua punto di ritrovo di molti giovani.
Tutto intorno…

Un giardino.

Man mano che si avvicinava al sentiero alberato e costellato di fiori, Niccolò sapeva di essere sulla strada giusta. La fontana con il cinghiale era proprio lì, di fronte a lui, muta tranne per il gorgoglio dell’acqua.

Non c’è nessuno. Molto strano…

Una nenia gli giunse alle orecchie, proveniva dalla sua destra. Cercò di muoversi cautamente, ma i passi sul sentiero di ghiaia risuonarono troppo nell’aria e, improvvisamente, tutto divenne pericolosamente silenzioso.

Alissa?

Qualcosa lo spinse a proseguire e lui era consapevole che fosse lei, voleva fargli vedere qualcosa.
Arrivò a uno dei bastioni delle mura, un grosso spiazzo verde alberato e, ovviamente, deserto. Nonostante non fosse affatto tranquillo, lo spirito lo guidava e spronava, quasi come se fosse smanioso che scoprisse qualcosa.
Effettivamente non aveva tutti i torti.
Dietro uno degli alberi, ben nascosto dalla luce, c’era un cerchio con dentro dei segni strani. Un pentacolo, geroglifici in una lingua sconosciuta, simboli che i mortali avrebbero ricondotto a satanisti ma che per lui avevano un unico significato: infernalisti.

Bene bene…cosa voleva la stirpe di Belial?

La risposta gli giunse poco dopo, con uno sguardo più attento.
I Belialiti stavano conducendo un rituale, probabilmente perché allertati dalla presenza di Alissa, per piegarla alla loro volontà, come molti altri prima di loro avevano fatto.
Ciò che non potevano sapere era il legame che la univa al megerita, che adesso si trovava a far oscillare un oggetto appeso a un filo di velluto nero, soppesandone la forma e soprattutto il colore.
Passò i polpastrelli sopra le sottili bordature e si rigirò tra le mani la maschera finemente lavorata e traforata, la stessa che aveva visto ai due figuri a fianco della Dea.

Schifosi figli di puttana!

*************************

Qualche notte dopo…

Elena sedeva, elettrizzata, nella sontuosa stanza nel centro romano, comprata dalla Dea poco dopo il suo arrivo nella capitale. Doveva aver pagato un occhio della testa, ma d’altro canto non si stupiva più di tanto: era un’anziana con chissà quale esperienza alle spalle e mai le aveva dato l’impressione di essere poco facoltosa.
L’aveva convocata dopo il termine del ricevimento tenutosi in Toscana, dicendole di dover assolutamente discorrere della Corte, in quanto fosse arrivato il momento per lei di avere la sua cerimonia di iniziazione.
Lei non se l’era fatto ripetere due volte: si era sistemata come un’Inquisitrice Daeva che si rispetti e si era precipitata al cospetto della Dea, che l’aveva accolta con entusiasmo nell’attico arioso e profumato di primule. Si erano sedute sulle comode poltroncine di velluto verde bottiglia, si erano versate diversi calici di zero negativo e avevano disquisito sul rito del Vinculum, di come sarebbe dovuto accadere e cosa lei avrebbe dovuto o non dovuto fare.
La Dea aveva risposto alle sue domande con pazienza e poi era stata richiamata per un avventore insistente inaspettato: ormai era fuori da circa un quarto d’ora e la Barberini iniziava a stufarsi.
Distrattamente si alzò e iniziò a girovagare per la stanza, curiosando un po’ tra le cose, soprammobili e libri. C’erano diversi trattati di filosofia, nomi abbastanza famosi comparivano sugli scaffali, alcuni tomi odoravano di vecchio e altri sembravano scritti a mano, cosa che le fece pensare sull’età effettiva della Dea.
Si spostò verso la grossa scrivania d’ebano, con leoni intarsiati sulle gambe e arabeschi lungo gli spigoli. Sulla superficie c’erano dei tasselli girevoli con dei solchi incisi, disposti in modo confusionale ma che celavano un disegno, non ci voleva tanto a capirlo.
La Daeva inarcò un sopracciglio e iniziò a far combaciare le linee da un tassello all’altro e lo fece in modo così assorto che non si rese conto del simbolo che, man mano, si stava dispiegando davanti ai suoi occhi.
Quando l’ultimo pezzo combaciò con gli altri due adiacenti, sentì un suono secco provenire dal basso, da uno dei due cassetti sul lato sinistro della scrivania.
Tirò fuori un fascicolo rilegato abbastanza malamente, del quale la prima pagina recitava un unico grande titolo, a caratteri cubitali: “La Corte di Baphomet”.

Baphomet, Baphomet…

Dove lo aveva già risentito questo nome?
Iniziò a sfogliare il fascicolo che si rivelò essere un album fotografico.
Ogni pagina aveva un dossier su una persona, con età anagrafica, sesso, connotati e diverse informazioni e un ritratto dettagliatissimo. C’era un elemento che ricorreva in tutti i volti che incontrava in quelle pagine: erano vampiri e soprattutto Succubi.
Quando trovò la propria faccia stampata a fianco di una descrizione dettagliata del suo aspetto e dei suoi possedimenti ed influenze, Elena fu certa che la questione si stesse trasformando in qualcosa di imprevisto che le piaceva ben poco.
Trovò anche Ludovico Sforza, Niccolò Castracani, su cui troneggiava una scritta frettolosa,e il volto di Luigi Borbone deturpato da un timbro rosso.
“Bersaglio eliminato”.
Per un attimo il fascicolo non le cadde dalle mani.

Bersaglio?!

Sfogliò ancora le pagine e man mano che i volti celati dallo stesso timbro sfilavano davanti ai suoi occhi terrorizzati, in lei divenne chiara una verità, amara e crudele.

I Daeva…non si sono ritirati…

Come poteva non essersene resa conto? Come poteva aver dubitato dei suoi consanguinei?
Una voce lontana le riportò alla mente una delle tante letture in compagnia del suo sire.

Baphomet…

Il volto di Ailide Beccaria le si parò dinanzi, ritratto alla perfezione con i suoi grandi occhi dorati e le ciglia da cerbiatta.
Baphomet era un dio pagano, il cui nome è avvolto nel mistero. Il suo sire, esperto di storia esoterica, si era piacevolmente sorpreso dalla domanda della sua progenie, già interessata a ciò che avrebbe dovuto combattere una volta introdotta nella Lancea Sacntum.
Si dice che i templari lo venerassero segretamente e che furono puniti per questo. Ad oggi, tuttavia, la creatura umanoide con la testa di capro è ricondotta al satanismo.
Elena ripose il fascicolo in fretta e in furia dentro il cassetto e, prima di scomporlo, lanciò un’occhiata al disegno sulla superficie del tavolino d’ebano.
La testa di capro di Baphomet, inscritta in una stella a cinque punte, la fissò silenziosa, unica testimone di ciò che l’Inquisitrice aveva scoperto.

***************************

Fine maggio, eliseo permanente

Fatevi trovare alle 22,30, solo. Vi prego, siete l’unico che può credermi.

Il breve messaggio di Elena Barberini l’aveva lasciato un po’ confuso. Perché avrebbe dovuto fidarsi di una che lo aveva sempre osteggiato? Perché doveva recarsi solo all’appuntamento? E perché quelle poche parole avevano uno strano odore, come se fosse una supplica sincera?
Niccolò non era sicuro di niente, ma una cosa era certa: se gli avesse voluto tendere un’imboscata, non avrebbe scelto un eliseo permanente, all’interno delle mura aureliane, come luogo d’incontro.
Aveva capito il gioco della Santificata, sfruttare un posto da cui era certo che ne sarebbe uscito illeso per farlo uscire dal nido.
Beh, c’era riuscita. Non tanto per l’avvenenza di lei, non gliene fregava un cazzo di come andasse in giro a manifestare le sue voglie lussuriose, ma perché il suo istinto gli diceva che in quel messaggio c’era un fondo di verità.
Alle brutte, si sarebbero scornati come al solito inneggiando ognuno il proprio culto, ma cosa sarebbe successo se invece l’incontro si fosse rivelato interessante?
A questo stava pensando mentre sedeva di fronte alla Santificata, stretta in un corsetto bordeaux e una gonna aderente sui fianchi. No, non le guardava il seno strabordante da quella sottospecie di prigione a stecche di metallo e il suo mordersi le labbra di continuo non provocava alcunché se non una domanda che si ripeteva tipo mantra:

Ma che ci sarà di così sensazionale nel fottersi questa qui?

Magari avrebbe dovuto scoprirlo, lei di no non glielo avrebbe detto. Non faceva differenza tra uomo o donna, quella Succube si sarebbe accoppiata con entrambi, da soli o contemporaneamente: non aveva limiti e tantomeno freni.

Reciterà i sermoni? Si farà il segno della croce?

Se la immaginò e si dovette trattenere dal ridere.

Altro che corpo di Cristo.

– Andiamo al sodo, Barberini. – disse infine – Che ci faccio qui? –

La vide guardarsi intorno, anche se nella stanza c’erano solo loro due.

– A voi non piace la Corte, vero? –
– Cazzo, che perspicacia. –
– Però non ve ne siete andato come gli altri. –

Elementare, Watson…

– Ma gli altri non sono andati via…da soli. –

Castracani inarcò un sopracciglio.

– Niccolò, ho scoperto qualcosa che non credo che nessuno sappia. –

Adesso la Barberini aveva tutta la sua attenzione.

– La stirpe di Belial…sono stati loro a farli sparire! –
– Lo so. –

Il megerita si raddrizzò sulla sedia e poggiò entrambi i gomiti sul tavolo. Non sapeva come avesse fatto, ma una volta tanto quella Santificata ragionava sulla sua stessa lunghezza d’onda.

– La sera del ricevimento. – aggiunse – Qualcuno ha fatto un rituale che ha attirato la mia attenzione: lì ho scoperto che erano stati loro. Ho trovato segni satanici e una maschera rossa sul luogo incriminato. –

– Un rituale? – la Barberini inorridì, come da copione. – Hanno evocato un demone? –

– Non mi sembra questo il frangente per discutere sui vostri di melodrammi da Santificata, soprassediamo. –

– I miei principi… –

Il Daeva picchiò un pugno sul tavolo, facendola sobbalzare.

– ‘Fanculo ai vostri cazzo di principi, Elena! Avete detto che sarei stato l’unico a credervi, ed è così: abbandoniamo per un momento le nostre divergenze e fronteggiamo questo problema.-

Da sempre la Stirpe di Belial era stato il nemico dei vampiri che si erano unificati nella società della Camarilla, dannati traviati e adoratori di un pazzo culto demoniaco, che cercava di infiltrarsi e distruggere tutti. Non facevano differenze tra clan, congreghe e fedi avverse: erano tutti nemici e tutti dovevano essere eliminati.
Ricercò lo sguardo sanguigno dell’Inquisitrice e seppe di aver fatto centro. Poteva dire quello che voleva, ma era evidente che si sarebbero dovuti alleare, compatti e decisi.

– La Corte non si fida di voi. – mormorò infine – Vi siete sempre dimostrato ostile nei suoi confronti. –

E avevo ragione.

– Hanno…un fascicolo, con dentro tutti i nostri nomi e di diverse dozzine di altre Succubi di cui non ho memoria. Alcuni li hanno eliminati, l’ho letto nelle pagine, altri… –

– Chi è il prossimo? –

Quando Niccolò uscì dal luogo dell’incontro e montò sul suo pick up blindato, sapeva che non c’era tempo da perdere, che dovevano agire in fretta, lui e la Barberini.
Ailide Beccaria era in pericolo.

*************************

Un mese dopo, Eliseo di Milano.

– Sia noto alla cittadinanza, che nelle notti appena trascorse si è consumato un atto di coraggio e forza. –

Ludovico Sforza passeggiava in un’area limitata e guardava i presenti con aria solenne.

– Un gruppo d’infernalisti, la Corte di Baphomet, da noi conosciuto come la Corte delle Maschere Rosse, ha cercato di minare alla sicurezza della nostra società, fattispecie per il clan delle Succubi. –

Il tono si fece più grave mentre dichiarava che le Rose avevano perso dei validi membri e che, se non fosse stato posto rimedio probabilmente ci sarebbero state ben più gravi conseguenze.
Il megerita e la santificata, uno di fianco all’altro, si presero gli elogi quando fu nominata la loro spedizione di salvataggio non solo dello Iudex Ailide Beccaria, ma anche dell’intera comunità della Camarilla vampirica italiana.
Molti furono i complimenti che gli giunsero alle orecchie, il settanta per cento falsi, il ventisette invidiosi e il restante tre si divideva tra i disinteressati e i sinceri.
Prima di tornare ai suoi affari, i suoi occhi incrociarono quelli della Barberini.

– Beh, buon ritorno ai vostri demoni. – sentenziò arricciando il naso

– Volete che ve ne mandi uno? Magari vi piace fottere pure quello. –

Ghignò soddisfatto e si diresse verso il Primo Cavaliere, che lo accolse con un ampio sorriso e una pacca sulla spalla.

– Non vi ho ancora ringraziato a dovere, Niccolò. Avete fatto in modo che Ailide tornasse sana e salva, e voi immaginate quale disastro sarebbe accaduto se ciò non fosse successo. –

Più o meno. Come togliere il giocattolo preferito a un bambino, vampiro, con duecento e rotti anni alle spalle. Robetta da niente, mh.

– Questi infernalisti…sono ovunque. S’infiltrano, queste maledette serpi. –

– Probabilmente si erano introdotti nella Camarilla da tempo e ci hanno studiato lungamente. La cosa della Corte era costruita troppo da hoc per noi Succubi, vostra grazia: sapevano che eravamo divisi e che una cosa del genere avrebbe attirato i nostalgici. –

Lo Sforza annuì pensoso e vagamente malinconico. Forse ci sperava pure lui di ritornare ai tempi prosperi delle Corti, d’altro canto le aveva vissute, sapeva di cosa stavano parlando.
Il Gerofante scrollò le spalle: non gli interessava cosa passasse per la testa dell’impomatato cavaliere, ciò che voleva era arrivare da Ailide e ai suoi diari.
Era per quello, fondamentalmente, che aveva supportato con i suoi doni occulti la spedizione con la Barberini e seguaci, se non ci fossero stati quei documenti di mezzo, probabilmente avrebbe sabotato l’operazione e lasciato morire la giovane; cosicché il caro Ludovico Sforza ne uscisse mentalmente deviato e si sarebbe ritirato, visto l’attaccamento morboso che aveva verso di lei.

E invece niente, mi tocca ancora leccarti il culo, Ludovico.

Stavolta, però, era convinto di poterli agguantare quei maledettissimi cartigli: era questione di poco.