Il vinto e l’invitto.

Torna l’appuntamento con le narrazioni a tema vampiresco sull’ambientazione di Vampire the Requiem!

Stavolta ci addentriamo nel mondo del Primo Stato, questo demone che spesso è stato nominato negli altri racconti: cosa si celerà dietro la congrega che sta al potere della penisola?

Non nascondo di aver avuto il famoso “blocco dello scrittore” per scrivere questo racconto, ma alla fine, eccolo qui!
Per quanto riguarda il titolo…ogni volta cerco sempre di trovarne affini al racconto, che ne racchiudano l’essenza: questo qui nello specifico è un gioco di parole che spero sia colto dopo aver letto l’articolo.

Buona lettura!

Sofia Starnai
Gruppo letterario Camarilla Italia
http://www.camarillaitalia.com

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Roma, Febbraio 2019, Eliseo dell’Accademia del Buon Gusto

Priscilla stava trattenendo le risate da circa tre minuti, sufficienti per renderla partecipe del teatrino che si stava dispiegando di fronte ai suoi occhi.
la Gran Maestra dell’Accademia del Buon Gusto, una vampira magrolina con un lungo abito scarlatto e una veletta di piume che oscillava di tanto in tanto, stava spiegando l’etichetta e lo stile dell’Accademia a una nosferatu dall’aspetto accigliato e mal messo.
I suoi occhi biancastri si spostavano insieme alle piume tra i capelli dell’altra, e la giovane Borghese era certa che non stesse capendo un accidente di ciò che Sveva le stava dicendo: era proprio lì l’esilarante, l’incomprensione di chi non poteva ambire neanche negli atteggiamenti ad essere un Invincibile, un fratello di qualità.
La nosferatu, come da copione, se ne andò borbottando qualcosa mentre alle sue spalle la nobile invincibile sorrideva educatamente ma, ad uno sguardo attento come il suo che sapeva cogliere i dettagli della Gran Maestra, stava anche inclinando impercettibilmente il capo, un gesto che faceva spesso quando voleva esibire il trionfo sulla cafoneria di alcuni dannati.
Quando la vide voltarsi e sorridere verso la sua direzione con quell’espressione che diceva “porgi gli omaggi e fallo bene”, nella mente della giovane Ventrue fu il caos.

Come dovrò chiamarla? Viscontessa? No, no…è troppo elevato e poi non ha nessun territorio qui a Roma, non che io sappia…

Era divenuta un paggio da qualche mese e ancora si barcamenava nelle questioni che affliggevano tutti i paggi dall’inizio dei tempi all’epoca odierna: etichetta e appellativi nobiliari.
Il suo sire, un Colonna abbastanza attempato, le aveva detto che l’Invictus era la congrega più antica della danza macabra e che, in essa, tutti avevano un proprio posto nella scala nobiliare che andava sempre riconosciuto e ben espresso, pena la derisione, l’esclusione, la beffa sociale.
Per un nobile, un membro del Primo Stato, la credibilità e autorità sugli altri erano qualcosa di imprescindibile: tutti dovevano riconoscere il prestigio di ogni fratello di qualità, anche i fratelli di qualità stessi.
Priscilla non lo aveva mai messo in dubbio, ma certo era che le cariche e gli appellativi, i toni da usare, le reverenze e onoreficenze fossero tantissimi; riempivano tomi su tomi, alcuni testimoni di due guerre, altri ancora più antichi che si sfaldavano solamente a sfiorarli: le cose da ricordare erano un’infinità.
E mentre ripassava tutta la rosa dei vari modi di approcciarsi a un proprio superiore e, più specificatamente, a Sveva Barberini, un colpetto di tosse la distolse dai suoi pensieri, secco e stizzoso.
La Succube era di fronte a lei, con le braccia conserte e un sopracciglio inarcato.

Male. Molto male.

“Vostra…eccellenza”

Le labbra dell’altra si dispiegarono in un sorrisetto.

“Corretto, nobile Priscilla. Corretto. E magari alla fine della serata potrei anche prendermi il titolo di Viscontessa di Civitavecchia, tutto dipende da come il Principe si è svegliato”

“Spero in una vostra riuscita, eccellenza”

“Sperare è poca cosa.”

Si battè piano un pugno sulla mano e, avvicinandosi di più, continuò:

“Si deve fare, agire. Chi se non noi può farlo? Siamo il Primo Stato, l’Italia è nostra da generazioni. Le dinastie cicliche esistono proprio per preservare questo ordine.”

Lo status quo

“E cos’altro, altrimenti?” mosse un braccio da sinistra a destra, come per abbracciare l’intera sala “Vogliamo lasciare tutto al Circolo della Megera? Per l’amor del cielo.”

Il gruppo degli accoliti stava relegato in un angolo ed era facile riconoscerli. Sporchi di sangue o fango, vestiti strani e con qualche orpello da portarsi appresso, come aveva il Gerofante Goffredo Vaccaro, che esibiva una maschera ingiallita di un teschio di caprone, posta sul lato destro del cranio.
Storse il naso.
I megeriti le facevano veramente ribrezzo, forse perché era profondamente devota alla fede di Longino e come tutti i Santificati considerava i loro contatti con il mondo ultraterreno, qualcosa di demoniaco e da estirpare.
Sveva intanto continuava a parlare, passando in rassegna tutte le congreghe. Lancea Sanctum, Ordine del Drago, Movimento Cartiano: tutti inadatti a guidare una nazione, tutti inadatti per preservare lo stato delle cose, l’ordine, la disciplina, che tanto avevano funzionato dai primi albori della camarilla.

“Avete già pensato a quale corporazione affiliarvi, Priscilla?”

“Non ancora. Sono paggio da pochi mesi…”

La Succube la squadrò dall’alto in basso, soffermandosi un po’ sul seno e sulla lunghezza della gonna. Dentro di sé, la Ventrue pensò di aver fatto bene a vestirsi in modo abbastanza castigato, senza spacchi e scollature vertiginose.

“L’Accademia del Buon Gusto cerca nuovi membri. Se vi interessa, sapete a chi chiedere.”

“Valuterò l’offerta, vostra eccellenza.”

La vide annuire e, mentre si allontanava, la sentì mormorare:

“Impostazione buona, probabilmente per il sangue di Re…”

In realtà le opzioni erano abbastanza risicate. Tolti i due ordini cavallereschi, i Grifoni e la Ghirlanda Spinosa, rimaneva l’Accademia e il neo riformato ordine dei Cherubini, di cui faceva parte solo un Borbone che vaneggiava di cose come l’arte o la musica. Non che le dispiacesse disquisire di dipinti o operette di Mozart, ma non era certa che la sua vera vocazione fosse quella ma, d’altro canto, nemmeno l’impostazione rigorosa del Buon Gusto l’attirava.
Il suo sire le aveva pure detto che sarebbe potuta rimanere una semplice invincibile senza corporazioni, in attesa che ne nascessero nuove più interessanti, anche se quest’ultima opzione era pressappoco irrealizzabile.
Il Primo Stato è conservatore, non innovatore. Se qualcosa torna al presente, è perché c’è già stata nel passato.
Le passò di fronte il Principe di Bologna e gli fece la solita riverenza, accompagnata da un saluto formale.
Gli occhi cerulei del vampiro si fermarono sulla sua figura, soppesandola per qualche istante.

Probabilmente nemmeno si ricorda chi sia.

“Priscilla Elisabetta Colonna, giusto?”

Inconsciamente si sorprese a gonfiare il petto, orgogliosa di essere nelle vaghe conoscenze di un Principe.

“E’ esatto, vostra altezza.”

“Le notizie corrono, in questa penisola: non poteva sfuggirmi l’affiliazione della figlia di Ezio.”

Le prese una mano delicatamente e posò le labbra sul dorso: un tocco soffuso e vellutato che la imbarazzò, ma non poteva certo ritirare la mano e offenderlo.
Lui le scoccò un’altra occhiata e sorrise.

E’ compiaciuto?!

“Non credo che ci siamo mai presentati a dovere, voi ed io.”

Il suo nome lo sapeva, così come le sue gesta che si erano diffuse a macchia d’olio in Italia, tuttavia, di nuovo, l’etichetta Invictus le imponeva di stare a sentire la presentazione e ricambiare, perché così la tradizione voleva.

“Io sono sua altezza Abel Caracciolo, Principe di Bologna, Visconte di Modena, della stirpe di Marcus il Crudele”

Caracciolo. Aveva sentito dire che era stato adottato, che non era un purosangue della famiglia: forse era per quello che aveva omesso la presentazione della propria genealogia?
Il suo raggiro del Monterumici era stato motivo di dibattiti nel Primo Stato romano, tra chi lo sosteneva e chi lo denigrava, soprattutto per alcune voci sul coinvolgimento di elementi del Terzo Stato per mettere atto il piano.
In tutto ciò, aveva pure soffiato Modena al casato della Corona d’Oro, che non l’aveva presa bene, ma al momento non disponevano tanti alleati nel Primo Stato per soverchiare il Principe Abel il quale continuava a sedere sul trono in un clima di pace apparente.
Pace.
In una società di vampiri è un eufemismo.
Se c’era una cosa che aveva imparato, era che i dannati non conoscono la cooperazione duratura o permanente. Si trattava di collaborazioni temporanee, spesso dovute ad accordi che favorissero entrambi i partecipanti, destinate a sfaldarsi alla fine della missione traducendosi in una stasi elettrostatica pronta ad essere infranta dal migliore offerente.

“I vampiri sono volubili” le aveva detto Ezio “Vogliono primeggiare, in tutti i modi: sono disposti a tutto, pur di farlo.”

Chissà quanto sarebbe durato, allora, quel principe candido come la neve e gli occhi cerulei, posato e garbato ma che, sotto sotto, nascondeva una scintilla di libidine che ogni tanto illuminava il suo sguardo e che, in quel momento, sembrava interessato a lei.

“Nobile Priscilla Elisabetta Colonna” replicò inclinando un poco la schiena, in modo mesto e ossequioso “Paggio Invictus”

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Sospirò, un po’ nervosamente.
Era l’ennesima volta che la padrona di casa, la Molto Cortese Sveva Barberini, lo riprendeva per il portamento e lui mangiava la foglia, vuoi perché era a casa sua, vuoi perché essere un invincibile prevedeva acconsentire a seguire i dettami dell’etichetta, ma era fastidiosa, molto fastidiosa.
Il fatto che lui fosse anche un cavaliere dell’Ordine della Ghirlanda Spinosa sembrava dargli un ulteriore motivo per essere ligio e non far infervorare la Succube: forse perché era nello stesso casato del Primo Cavaliere e suo maestro, i Borbone?
Abel Caracciolo sfilò di fronte ai suoi occhi con Priscilla Colonna e dovette trattenere una smorfia.
Non gli piaceva, quel ventrue lì. Non per il fatto che avesse soffiato il trono al Monterumici, ma per il suo essere viscido e subdolo, lascivo e provocatore, in un modo che riusciva a toccarlo anche nella sua ferrea compostezza di cavaliere.
In più, tra i mekhet era girata una voce, confermata da una megerita di Bologna, Selene: quello lì aveva degli intrallazzi con una ventrue, sua sorella, e si diceva che pure lei avesse svolto un importante ruolo nel colpo di stato, tradotto in vantaggi per il Circolo della Megera.
L’Invictus doveva piegare le congreghe, non farsi piegare.
Di Priscilla invece sapeva poco, a parte il suo ingresso in società e tra gli invincibili abbastanza recenti e la sua discendenza.
Era una vampira posata, garbata e sembrava non aver preso niente dall’arrogante e strafottente padre, quel bastardo del Colonna: tanto meglio.

“Juan.”

Un bisbiglio alla sua destra: suo fratello si era materializzato alle sue spalle.

“Cazzo, Hulio!” sbottò

“Ahi ahi ahi, vostra grazia. Ci dimentichiamo dell’etichetta?”

“E tu a quanto pare ti diverti a giocare con l’Oscurazione…non dovrebbe essere finito il periodo dei giochi?”

Il cavaliere ridacchiò. Da quando erano stati abbracciati, circa a vent’anni della loro vita umana, Hulio adorava usare i poteri che il sangue delle Ombre forniva, soprattutto quelli per occultarsi alla vista altrui.
Nonostante fossero passati sessant’anni, in quel giovane eterno con i suoi stessi occhi scuri rimaneva ancora una stilla di quello che era stato e di come era.

Prima o poi smetterà, aveva detto il loro sire, un Marinus che si era ritirato dalla vita sociale qualche anno fa, tutti prima o poi smettono di essere vagamente umani.

“Non ho usato i poteri, comunque. Mi sono avvicinato così come fa un’ombra: silenziosamente. E poi, va detto, è stato anche fin troppo facile: stavi assorto nella bella chioma della Colonna.”

Gli diede una gomitatina che lo sfiorò sulla scapola destra.

“Mph. In realtà stavo pensando a quanto siano fastidiose certe presenze.”

Hulio sfoderò un sorriso sarcastico e annuì: la pensava come lui, non che potesse essere altrimenti; erano da sempre stati sulla stessa lunghezza d’onda e un po’ temeva che con l’andare degli anni avrebbero perso questa sintonia.

“In ogni caso: attenzione ai Cartiani.”

Con un cenno del mento glieli indicò, anche se non serviva: il Movimento Cartiano si faceva riconoscere per il suo Prefetto alquanto rumoroso: in quel momento stava esprimendo un concetto, da lì non capiva quale ma più che un discorso era un turpiloquio persistente, cafone e grezzo che gli faceva perdere qualsiasi interesse.

“E’ già tanto che non abbiano rovesciato qualche pezzo di cristalleria o non siano saliti sui tavoli.”

Tutte le congreghe erano potenzialmente pericolose, ma nessuna lo era più del Movimento. I Santificati avevano a cuore le loro questioni religiose, le chiese, le messe: con loro bastava garantirgliene una per ogni eliseo, qualche pugno di territori sacri e la faccenda si chiudeva lì; Ordine del Drago e Circolo della Megera avevano i loro strambi interessi, se i primi perpetravano l’assurda filosofia di cambiare la propria condizione vampirica, i secondi desideravano luoghi di culto e di essere fondamentalmente lasciati in pace con i loro spiriti.
Tutte cose realizzabili, sempre con degli accordi oculatamente studiati che privilegiassero l’una o l’altra parte, l’importante era che lo status quo rimanesse ben saldo e che il potere fosse nelle mani del Primo Stato.
Il Movimento Cartiano era forse una delle minacce più incessanti, con i suoi caotici membri e le loro caotiche idee: passavano da una forma di governo all’altra senza tregua, democrazia, oligarchia,tirannia, senza una stabilità, senza un punto fermo.
Una congrega neonata che voleva mettere i piedi in testa a una che sopravviveva dall’alba dei tempi?
Impensabile.
Un mormorio sorpreso provenne sempre dalla sua destra.

“Oh…questi mi sanno di pezzi grossi.”

Juan aggrottò le sopracciglia. I Cartiani?
Improvvisamente nella stanza era calato un silenzio curioso, pure il Prefetto si era zittito, cosa alquanto strana. Gli bastò girare il capo di tre quarti per vedere che figuri all’ingresso della sala che pian piano si avvicinavano al centro, dove Sveva Barberini li attendeva muta e compita.
Un uomo e una donna, entrambi grossi, entrambi sporchi di sangue, entrambi con uno stemma che non lasciava dubbi sul loro ruolo nel requiem.
Sui mantelli vermigli con pelliccia di ermellino, spiccava il simbolo dorato della Corona d’Oro, il casato dinastico di Modena, quello che con la trovata del neo Principe, aveva perso il proprio dominio.

Oh-oh. Vediamo che bel casino che succede.

Spostò lo sguardo sul Caracciolo il quale, in prima linea, era placido al suo posto, poggiato morbidamente sul suo bastone da passeggio.

Perché è così tranquillo? Stanno per farti la festa, coglione!

Uno dei due, il maschio, schiarendosi la gola, iniziò a parlare:

“Lunga notte, fratelli di qualità…”

Ma aveva un tono strano. Come se ci fosse qualcosa d’incastrato nella sua gola…
Tossì. Un pezzo sanguinolento rotolò di fronte ai piedi della Barberini.
Una falange.
La Maestra del Buon Gusto strinse le labbra e socchiuse gli occhi.
Non riusciva nemmeno a immaginare con quale sforzo si stesse contenendo, forse lo stesso che stava provando lui nell’evitare che sul volto gli si dipingesse una maschera di disgusto.

Mallari…

Hulio bofonchiò qualcosa tra cui un: “che schifo, porca puttana che schifo.”
La voce roca del grasso vampiro riecheggiò nuovamente, stavolta più piena e forte, sovrastando i mormorii:

“Lunga notte a voi, fratelli di qualità…e tutti voi altri.”

“Lunga notte, benvenuti all’Accademia del Buon Gusto”

Sveva Barberini sfoderò uno dei suoi sorrisi cordiali, deturpato però dal ribrezzo per il pezzo di carne per terra, in una micro pozza di sangue e saliva.

“Noi siamo Sua Magnificenza l’Antico Vittorio Mallari, Principe di Rimini, Reggente del nobile casato della Corona d’Oro.”

Indicò con una mano adornata da due grossi anelli l’altra Mallari al suo fianco, una donna con un ghigno famelico che presupponeva che il pasto non le fosse bastato.
Mentre era presentata, questa gonfiava il petto, alzava il mento e guardava tutti dalla sua modica altezza di un metro, quaranta centimetri e tantissima voglia di crescere.

L’ottavo nano…

“Mia figlia, Sua Grazia, la Molto Elegante, Contessina Mallari.”

Molto elegante è un eufemismo.

“Vogliate scusare il mancato preavviso, vostra grazia” gracchiò ancora Vittorio.

Sveva, come da copione, replicò che non v’era motivo di porgere le scuse e che entrambi erano i benvenuti.
Juan fece un sorriso tirato.

Ovviamente. Gente del genere non avvisa: viene e basta, tanto loro possono.

La voce del reggente della Corona d’Oro però non esitava ad estinguersi:

“Veramente avremo un annuncio da fare, di grazia.”

In un mezzo secondo, la Maestra dell’Accademia del Buon Gusto si era defilata a lato, lasciando il palco al neo arrivato.

Velocità delle Succubi?

“Fratelli di qualità!” diede un occhio alla zona del Primo Stato e poi sommariamente agli altri “…e voi tutti altri! Questa sera sono qui per dichiarare che la Molto Elegante Contessina Mallari è in cerca di marito.”

Per mangiarselo.

“…il nostro Casato predisporrà un Torneo. Si scontreranno abili cavalieri e astuti oratori, poiché la parola è un’arma assai più affilata di una spada. Il vincitore…avrà la mano di Sua Grazia Mallari. I nobili invincibili potranno partecipare personalmente o assoldare dei validi scudieri per perpetrare la loro causa.”

Cercò con lo sguardo il fratello ed entrambi fecero un sorrisetto beffardo.

Ergo sfruttate la manovalanza del Terzo Stato.

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Ricevimento di Rimini, Aprile 2019

Due mesi esatti erano passati dall’annuncio di sua Magnificenza e ora, in un maestoso albergo di Rimini, il ricevimento dei Mallari si stava svolgendo con le sue stranezze e banchetti poco appetitosi.
Non avevano badato a spese quelli della Corona D’oro: la struttura architettonica era imponente e sfarzosa, probabilmente un cinque stelle, tutta occupata da vampiri accorsi a vedere il gran torneo per la mano di Contessina.
Dov’era, a proposito?
Priscilla la trovò a rosicchiare una mano – già, una mano – seduta sul suo scranno, con la pancia che sembrava che dovesse lacerare l’abito violaceo da un momento all’altro.
Nonostante fosse una ventrue, la trovava alquanto ripugnante: come potevano solo aspirare a volerla in moglie?
Eppure il torneo e la sua posta avevano suscitato una risposta celere da tutta Italia: invincibili da nord a sud si erano proposti per la mano della Mallari e, dopo mesi, s’era arrivati a Rimini con i finalisti di entrambe le due gare.
Uno era il Principe Abel, con un tale Efesto come scudiero per la sfida fisica e Kaine Caracciolo come oratrice; eccoli lì che attendevano l’annuncio di inizio gara, il pallido Abel al centro e i due megeriti, due macchie nere sul candore dell’invincibile, ai suoi lati.
L’altro contendente invece era un suo concittadino, Hulio Marinus: sorprendendo molti degli sfidanti, era arrivato a quel punto contando solo sul supporto di suo fratello, un cavaliere, e di un altro mekhet, il capo degli esorcisti, Edoardo Borgia.

“Ehm ehm”

La figura bassa e grassoccia del ciambellano prese spazio al centro della stanza. Il panciotto era talmente teso che non si capacitava di come i bottoni riuscissero a rimanere lì saldi senza schizzare dappertutto.

“La finale del torneo sta per cominciare. Chi vuole scommettere può avvicinarsi al tavolo qua a destra.”

Indicò un tavolinetto rivestito da una lunga tovaglia azzurra damascata in argento, dietro al quale sedeva un ometto ricurvo, con degli occhialetti storti sul naso adunco e un sacchetto di velluto, accanto a un mazzo di fogli dove segnare le scommesse. Priscilla ne sentì l’odore acre della pelle e il fluire del sangue nelle vene: sul collo, la carotidea pulsava placidamente, succosa e altresì vitale.

“Per la sfida di oratoria: alla mia destra, per vostra altezza il Principe Abel Caracciolo, Kaine Caracciolo!”

La donna avanzò accolta da un applauso moscio. La vide inarcare un sopracciglio e mormorare qualcosa che non le ci volle molto a interpretare come un’imprecazione colorita, tipica del suo atteggiamento.

“Alla mia sinistra, per sua grazia Hulio Marinus, Edoardo Borgia!”

Il Santificato si posizionò di fronte alla megerita e fece un sorrisetto beffardo.

Lancea Sanctum contro Circolo della Megera. Clichè.

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“Allora Juan, quell’Efesto mi sembra tarato sul combattimento corpo a corpo. Se non ti farai prendere e giochi tutto sulla velocità come sai fare, vinciamo.”

Hulio era euforico. Pregustava già la vittoria e si vedeva: si sfregava in continuazione le mani guardando la grossa e grassa Mallari.

“Guarda com’è tutto contento…” gli rifilò una gomitata sulle costole “Ti piacciono proprio le corpulente eh?”

L’altro gli scoccò un’occhiata che sapeva di un acidissimo “vai a farti fottere”.

“Sai benissimo…” si guardò intorno “…cosa succederà.”

Oh sì.

Il reggente del casato Marinus era stato chiaro: Hulio doveva vincere e rimanere sposato per almeno due mesi; poi, “casualmente”, un grave incidente lo avrebbe reso vedovo, ma comunque erede di diritto della fetta di torta della Corona D’Oro: era già tutto organizzato, mancavano solo alcuni dettagli sulla Contessina che il novello sposo avrebbe fornito al casato.

“La gara di oratoria?”

“Pareggio.”

“Merda!”

Si sentì picchiare sulla nuca con un colpo secco; la Barberini, alle sue spalle, sventolava un ventaglio chiuso in modo inquisitorio.

“Chiedo venia, Eccellenza”

Hulio gli diede una pacca sulla spalla e si dileguò in direzione degli invincibili di Milano. A breve si sarebbe scontrato con Efesto e aveva voglia di uscire un po’ dalla bolgia e defilarsi da qualche parte da solo.
Sangue di ombra non mente.
Salì le scale e la mano sinistra andò delicatamente a posarsi sull’elsa della spada: era un gesto spontaneo che ormai non controllava più, come trovasse un sostegno su quel pezzo di ferraglia rivestito di stoffa azzurra.
Si trovò in uno dei corridoi con le varie camere ai lati; l’unica differenza è che in fondo sembrava esserci uno spiazzo, una stanzetta di ritrovo, fortunatamente deserta.
Vi si diresse sperando di trovare chissà che cosa, quando arrivò in fondo realizzò che c’era solo un’uscita d’emergenza e diversi comandi elettrici del piano: rimase un po’ deluso, ma lo svago era stato sufficiente.
Era un dannato che s’accontentava di poco, tutto sommato.
Stava per imboccare nuovamente il corridoio quando qualcosa lo schiacciò prepotentemente contro il muro e di fronte ai suoi occhi comparve il brutto muso spettrale di un nosferatu.
Non sapeva chi fosse, era certo che non fosse un cittadino romano e nemmeno un invincibile, il suo vestiario faceva pensare a tutt’altro che un nobile.

“Aggredire un altro dannato in eliseo, è contro le tradizioni” disse a denti stretti “E’ reato. Sarete punito, chiunque voi siate.”

“Oh, ma qui non vogliamo aggredire nessuno, vero Lucious?”

Gli si gelarono le ossa.
Quella voce serpentina, fastidiosa, petulante…

L’orrida visione mantenne la presa su di lui e si spostò da un lato, il giusto per fargli vedere l’altro interlocutore, il Principe di Bologna Abel Caracciolo, nel suo completo gessato e il bastone da passeggio.
Il volto era una maschera apatica tranne che per una piccola piega che gli increspava le labbra in un sorriso gentile, in cui vedeva una falsità disarmante.

“Se non è vostro obbiettivo aggredirmi…perché trattenermi?”

“Precauzioni, mio giovane amico.”

Amico un par di palle, schifoso ventrue scopa megeriti.

“Perché sono certo che lo diventeremo…”

Sorrise di nuovo, un po’ più ampiamente.

“Vedete, Juan, voi stasera vi scontrerete con il mio scudiero, Efesto. Inizierete il duello, un paio di colpi, un po’ di sano sollazzo e intrattenimento per tutti i presenti e…beh, poi vi arrenderete. Per un motivo o per un altro, ma vi arrenderete.”

Il mekhet rimase di sasso. Non sapeva se ridere, incazzarsi o entrambe le cose, non fare nulla e accettare per poi andare a dire tutto a Hulio, cosa che forse la migliore.
Deglutì. Stava per preparare una risposta pronta, quando Abel gli si fece vicino, piantandogli due occhi di fiamme addosso:

“Se state anche minimamente pensando di andare a spifferare tutto, sappiate che se lo farete, stanotte morirete. Non chiedetemi come, ho decisamente più influenze e contatti che un insulso cavaliere possa mai avere, ci arriverete da solo. In più…se deciderete di fronteggiare Efesto e per sbaglio dovreste vincere, uccideremo vostro fratello. Stesso modus operandi, stesso esito: uno dei due muore.”

Il nosferatu gli strinse con forza il lembo della giacca e fece un ghigno, sadico e soddisfatto.
Avrebbe voluto estrarre la sua spada, quella che ora fremeva nel fodero, scossa dalla mano sinistra tremolante di rabbia; l’avrebbe fatto e avrebbe fronteggiato quel pezzo di merda lì e poi si sarebbe occupato del Principe, quel sorriso glielo avrebbe tolto con la forza.

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Il gangrel megerita stava di fronte a lui, pugni chiusi e una brutta smorfia sul viso. Era chino come se dovesse scattare, al via del ciambellano, in un rapido placcaggio della sua figura, decisamente più longilinea e meno possente.
Lui, d’altro canto, distava dal suo avversario di almeno quattro passi e se ne stava ben diritto, la spada sguainata e impugnata nella mano destra in una posa di guardia.

“Combattete!”

Come previsto, Efesto iniziò a correre verso di lui come se dovesse caricarlo. Non aveva però fatto i conti con la velocità di un’ombra: in un attimo lo schivò e si posizionò di lato, allungando un piede per fargli uno sgambetto. Il megerita rovinò per terra tra grida, risate e schiamazzi, oltre al suo più che lecito disappunto.
Juan s’impose di non ridere, non era degno di un cavaliere beffarsi dell’avversario.
Il Primo Cavaliere apprezzò il gesto e fece un mezzo cenno di compiacenza a cui avrebbe voluto rispondere, ma il suo avversario si stava già rialzando ed era un toro inferocito.

Tienilo distante, Juan,tienilo distante…

Continuarono a colpire e schivare per dei minuti, in una strana corrida per vincere un mantello rosso.
E se Juan stava cominciando a sentire la fatica, Efesto sembrava inarrestabile.
Eppure, a un certo punto ci fu uno spiraglio, una luce nel buio. In uno dei tanti scatti, il mekhet riuscì a intaccare la difesa del megerita; lo ferì e nemmeno troppo superficialmente: con un grido, Efesto si sbilanciò per una frazione di secondo, posò un ginocchio per terra e si pose in una posizione di svantaggio.

ORA!

Lesto posò il filo della spada sul collo dell’avversario.
Incrociò il suo sguardo, matador trionfante e toro con le spalle al muro.
Era fatta. Aveva vinto.
Rimasero immobili, a guardarsi negli occhi.
Nessuno fiatò, né dalla platea né alle loro spalle. Il ciambellano guardava attento ma non s’azzardava a muoversi, come se stesse aspettando qualcosa di preciso prima di decretare il vincitore.
Come lui ce ne erano altri. Molti altri.
Lo guardavano freddi, inquisitori, lo scrutavano e aspettavano quella cosa.
Seduti ai posti degli attendenti, Abel e Hulio tenevano gli occhi fissi sulla scena, uno di fianco all’altro; uno lo specchio del trionfo, l’altro una serpe velenosa che sorrideva dolcemente.
Il tempo sembrò fermarsi: in quell’istante tremendamente lento, Juan Marinus ebbe una consapevolezza amara che gli fece prendere una decisione, l’unica possibile.
Buttò per terra la spada.

“Mi arrendo.”

Se ne andò mentre il ciambellano decretava il vincitore, se ne andò, più veloce di un fulmine, perché non voleva vedere gli occhi di suo fratello intrisi di delusione.

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Rifugio dei fratelli Marinus, dopo l’eliseo.

“JUAN!”

Lanciò via il soprabito e si catapultò nella sala, dove spesso il fratello andava a leggere e dove sperava di trovarlo; era sparito subito dopo il combattimento quel codardo, e ora si era rintanato da qualche parte per evitare il confronto.

Sempre a scappare, sempre!

La sala era vuota. Scattò verso il primo piano.

“JUAN!”

Uno spiraglio di luce che proveniva da una delle stanze del corridoio si estese abbracciando il pezzo di pavimento e di muro di fronte; poi la figura di suo fratello comparve sulla soglia ed infine fu di fronte a lui.

“Fratello”

“FRATELLO UN CAZZO!”

Era furioso. Furioso perché non solo aveva mandato a puttane ogni proposito del casato, ma aveva pure la faccia tosta di starsene lì, tranquillo, come se nulla fosse!
Non riuscì a ragionare. Non riuscì a non rifilargli un pugno dritto sul naso, che fu incassato, senza se e senza, in un modo che non era proprio di suo fratello, ma non aveva tempo per ragionarci sopra.
Con un altro pugno dritto allo stomaco lo mandò con le spalle al muro, piegato su se stesso.
Era sempre stato quello forte fisicamente e lui quello debole di costituzione.
Da quella posizione, tra il dolore e la rabbia, iniziò a ridere.
Hulio non voleva crederci, tant’è che pensò che fosse in preda agli spasmi quando la risata era bassa e singhiozzanto, ma quando divenne frastornante, non gli rimase altro che guardare esterrefatto il fratello minore ridere convulsamente, preso da chissà quale forza demoniaca.

“Davvero…” tossicchiò “Davvero credevi che tu potessi avere anche la minima possibilità di vincere?”

No…non l’hai detto, bastardo, non l’hai detto…

Rise ancora, stavolta amaramente.

“Non avevamo possibilità, Hulio: Abel Caracciolo doveva vincere, era già stato deciso. Questo torneo era una farsa per far sentire importanti i poveri stolti come noi e far vedere chi comanda agli sconclusionati del Secondo e del Terzo Stato.”

Come?

“Già. Tutta la Corona d’Oro lo voleva e non solo: probabilmente pure i Gonzaga con i loro pidocchiosi nosferatu. La politica, questa è stata la vera vincitrice del torneo. E’ lei che ci ha mosso e a lei siamo tornati: un circolo orrendamente vizioso quanto attraente.”

Cominciava pian piano ad avere tutto un senso.

“Così la Corona si è potuta riprendere Modena…”

“Ah! Contessina diventerà Viscontessa nel giro di poco.”

Non dissero più nulla. Hulio, frastornato, si mise seduto di fronte a Juan, con la testa tra le mani.
Gli avevano dato dei vantaggi per arrendersi? No, altrimenti perché avrebbe reagito in questo modo?
Lo avevano ricattato? Quando era successo?
Tante domande gli affollavano la testa senza trovar sfogo o esplicazione: rimanevano lì, echeggianti e fluttuanti in quell’aria elettrica.
Guardò suo fratello con il capo chino e il sangue rappreso sulla bocca e naso.

“Politica o no, prima o poi arriverà il momento in cui dovremo far fuori quel Caracciolo.”

Juan annuì.

“Sarà una cosa lenta e graduale: ci potranno volere anni, ma quel sorrisetto sarò io a levarglielo dalla faccia una volta per tutte. Te lo prometto, Juan.”