Il Pianto di Caino – Parte 2

Prosegue la storia di Patrick Swann, giornalista d’assalto e vittima di molti rimpianti. Nell’episodio di oggi, alcuni di questi inizieranno a prendere una forma ben definita…
Se vi siete persi l’inizio del racconto, potete trovarlo qui

Molte Domande, Troppe Domande

“Mi segua, Mister. So dove condurla”

Allie è di parola, su questo non c’è dubbio: in meno di un istante, Patrick si ritrova a seguirla in una via laterale, fino a quando non si ritrova davanti  a un tombino.
E la ragazza estrae un piede di porco dallo zainetto.

“Mi dia una mano, per favore”

“Non dovrebbero essere sigillati?”

“Non questo. Mi dia una mano, da sola non ci riesco”

Altre domande, come sempre. Ma il museo è ancora lontano, e Patrick Swann ha imparato nel modo peggiore che la vita ha bisogno di un ben preciso ordine di priorità.
E questo vale anche per la curiosità.
Dopo un notevole sforzo, il tombino viene smosso. Ed un flash abbaglia il giornalista.

“Allie, cosa diavolo stai facendo?!”

Da dietro la macchina fotografica si intravede il sorriso colpevole della ragazza.

“Mi dispiace, Mister. E’ che ho la fissazione di fotografare… tutto quello che mi capita. E’ così che sono diventata una fotografa”

“Non è proprio il momento adatto per raccontarmi la storia della tua vita. Fotografa solo quello che sarà necessario per l’articolo, sono stato chiaro?”

La ragazza annuisce appena, e con nessuna convinzione. Ma è la sua unica fotografa, e questo dovrà bastare a Patrick per sopportare l’ennesima follia di quella notte.
Pochi secondi dopo, i due si ritrovano a percorrere i condotti fognari di York. Il tanfo è insostenibile e l’aria viziata, tanto che più di una volta Patrick ha l’assurda sensazione di essere osservato dai liquami sopra i quali cammina.
Ed a scacciare questa follia, l’unica luce che lo guida è quella di un cellulare di vecchia generazione.

“Ogni pellegrino ha la stella che si merita”

Ma è un pellegrinaggio di breve durata, che si conclude dinanzi ad una parete demolita. Oltre, una grande stanza piena di casse.

“E’ questo il magazzino? Perché c’è una parete sfondata?”

Ora anche Allie sembra stupita, e Patrick è certo di vederla riporre una chiave.

“Doveva… doveva esserci una porta, lì”

Troppe domande, come sempre. Il tono della voce della fotografa è abbastanza inquieto da lasciare pochi dubbi sulla sua sincerità, ma questo non migliora l’umore del giornalista.

“Facciamo attenzione.
Ed andiamo avanti”

Il magazzino sotterraneo del museo è tanto vasto quanto disordinato. Innumerevoli cassoni custodiscono tesori sottratti alle sabbie del Tempo e consegnati all’abbandono dell’uomo. Un innaturale silenzio avvolge ogni cosa, come se perfino la realtà avesse preferito abbandonare un luogo colmo dei rimpianti di intere civiltà.
Cercando di non badare agli occasionali flash che giungono dalla macchina fotografica della collega, Patrick si aggira in quel dedalo alla tormentata ricerca di una strada da seguire per raggiungere finalmente la sua Arianna… o il suo Minotauro… fino a quando non si imbatte in qualcosa.

“Allie, vieni qui. Quell’italiano aveva ragione”

Enormi ragnatele si estendono per buona parte del magazzino, ricoprendo ogni cosa come un inquietante manto. Non senza un’esitazione, Patrick ne saggia la consistenza.

“Sembrano vere. Ma sono molto più spesse e robuste di qualsiasi ragnatela che io abbia mai visto.
Che roba è questa?”

Diligentemente, Allie scatta la sua foto prima di rispondere.

“Avevo sentito in un documentario che nei paesi tropicali esistono ragni grandi come il torso di un uomo. Forse qualcuno è finito in una di queste casse mentre le sigillavano ed è arrivato qui a York.
Comunque, anche io ho trovato qualcosa, Mister”

Con gesto ormai consumato, Allie recupera dallo zainetto una cassa. E’ molto più piccola delle altre, quasi un portagioie, ed al suo interno si vede ancora il materiale adatto per conservare al meglio un reperto fragile. Sul lato, un’etichetta rovinata permette di leggere solo un nome.

Il Pianto di Caino.

“E cosa avrebbe di così curioso, al di là di essere più piccola delle altre?”

“Guardi meglio”

Solo all’invito, Patrick si decide a smuovere il materiale da imballaggio. Solo così riesce a notare degli strani segni tracciati sulle pareti interne della cassa. Ed il giornalista è fin troppo abituato alle pagine di cronaca nera per commettere errori.

“Sono tracciati con il sangue.
Che cazzo è successo qui dentro?”

La cassetta viene riposta, e lo sguardo di entrambi ricade sulle scale che conducono alle stanze dello Yorkshire Museum. Nulla viene detto, gli sguardi neppure si incrociano: non ce n’è alcun bisogno. Perché da sempre, fin dall’antichità, vi sono uomini e donne che hanno dedicato la loro esistenza ad accendere un lume in più nell’oscurità, a ricercare il vero anche quando tutto il mondo sembra ricamarsi sul mistero.
E così, entrambi risalgono quelle scale, armati solo di ordinaria follia ed una macchina fotografica.
Scale che si interrompono dinanzi ad una porta. La serratura è distrutta, mentre i cardini devono avere sofferto un tale impatto che a malapena sono rimasti attaccati alla parete.

“Pronta?”

Per tutta risposta, Allie solleva la macchina fotografica, portando lo sguardo all’altezza dell’obiettivo.
E con l’unica benedizione di cui può avere bisogno, Patrick Swann apre la porta.

Adagio

Al di là della porta, il museo è avvolto dalle tenebre. Solo le luci di emergenza si ergono solitarie, piccoli fari di Alessandria nel mare dell’ignoto.
Ma anche in quelle condizioni, è difficile non notare la scia di sangue che si allunga per tutto il corridoio dinanzi ai due.

“Allie, fotografa e…”

Un urlo riecheggia in lontananza.
Senza un istante di esitazione, la fotografa inizia a correre nella direzione del grido, la macchina fotografica già pronta a compiere il suo freddo dovere.

“Aspetta!”

L’ordine, con il tono di una supplica, si perde nell’oscurità, e Patrick è costretto a correre a sua volta. Ma forse è il troppo lavoro d’ufficio, o forse è l’insensata lunghezza di questo corridoio, ma Allie si fa sempre più lontana da lui. Lui la richiama ancora, e ancora, ma lei pare non sentirlo, dimentica di tutto e di tutti, se non delle sue foto. Fino a che non svolta l’angolo del corridoio, e Patrick la perde definitivamente di vista.

E’ solo in quel momento che la musica inizia a riecheggiare.
Una melodia leggera, dal tono malinconico. Le sue note sembrano quasi lacrime, versate in solitudine dove nessuno possa vederle. Solo udirle, perché il mondo non rimane mai indifferente ad una lacrima, al contrario degli uomini.
Patrick si blocca, anche se non sa perché. C’è qualcosa di familiare in quella melodia, eppure è certo di non averla mai udita. E’ un senso di déjà-vu primordiale, un sentimento che attanaglia il cuore dell’essere umano dalla notte dei tempi.
Poi un altro grido risuona nelle stanze del museo. E questa volta è una voce che Patrick riconosce bene.

“Allie!”

Vincendo la melodia che non cessa di risuonare intorno a lui, il giornalista riprende a correre.
Ma ormai è troppo tardi.
La macchina fotografica è a terra, intatta ma abbandonata. Poco lontano da essa, una ragazza è a terra, immobile, e la scia di sangue sul pavimento si interrompe proprio lì. Patrick vorrebbe correrle incontro, sollevarla e fuggire da tutta quella follia.
Ma la sua mente, così come il suo corpo, è ancora bloccata.
E’ stato solo un istante, ma nell’oscurità l’uomo è certo di avere visto la sagoma di un ragno, grande almeno quanto un toro, fuggire lungo un corridoio laterale.
Trascorrono interminabili istanti prima che il giornalista riesca a muovere un solo passo. La mano gli trema quando, con la luce del cellulare, si china sulla ragazza sporca di sangue, e le lacrime già si affacciano sui suoi occhi.

“Allie…? Ti prego, Allie…”

Ma la luce scaccia le tenebre, e disfa gli inganni: è questa la sua natura. E colei che è a terra non è Allie.
E’ Yulia Stukov.
Gli occhi chiusi come in un dolce sonno, incrinato nella sua perfezione dal sangue che le lorda le morbide labbra, e che sembra essere l’origine della scia che Patrick ha seguito per arrivare fino a lei.
Lei. Bellissima, come lui non ha mai smesso di ricordarla. Lì, tra le sue braccia, come lui l’ha sempre sognata.

“Y-Yulia? Come…?”

I ricordi delle parole di Andrea Rizzo si mescolano confusamente con la melodia che ancora continua a versare le sue lacrime. E non smette neppure quando, a fatica, Yulia riapre gli occhi.

“Patrick…?”

Per tutta risposta, dimentico del sangue e degli orrori celati nelle tenebre, Patrick l’abbraccia. Poi la guarda, come se ancora faticasse a credere di non trovarsi nel sogno di un folle.

“Cosa ci fai qui? Tutti credevano che fossi sparita! Morta!”

Lei lo guarda con sguardo ancora stanco, confuso.

“Io… stavo indagando su cosa stia accadendo qui dentro”

Patrick annuisce lentamente, come se quella potesse essere una risposta. Ma per lui, solo per lui, lo è davvero.

“Come va la tua agenzia investigativa? Hai trovato qualche lavoro?”

“No, sono ancora felicemente disoccupata”

“Lo immaginavo. Ma non temere. Si dà il caso che abbia una notizia che potrebbe interessarti…”

E’ così che l’aveva persa: lui l’aveva condotta sull’indagine che a detta di tutti l’aveva uccisa, e da allora non se n’era mai dato pace. Aveva distrutto la propria vita tra l’alcool e la cronaca nera, in un futile gesto di penitenza, ma non era mai servito a nulla.
Fino a quella sera. Fino a quell’istante.

“Yulia, dobbiamo andarcene da qui. Non so cosa stia accadendo, ma dobbiamo lasciarlo alla polizia”

Lei lo guarda, mentre lentamente sembra recuperare lucidità e, insieme ad essa, quell’orgoglio per cui lui l’ha sempre amata ed odiata allo stesso tempo.

“Come abbiamo lasciato Alan Potarov alla polizia?”

L’affondo fa molto più male di quanto Patrick pensasse. Ma con lei, è sempre stato così.

“D’accordo, hai ragione. Scusami, mi sono lasciato prendere dal panico.
Cos’hai scoperto?”

La ragazza si porta una mano alla bocca, come se solo ora si accorgesse del sangue. Ma Patrick non fa alcuna domanda: semplicemente, non vuole sapere. Non ora, non di lei.

“Tutto è iniziato con l’allestimento di una mostra di cimeli antichi. Sembra che ci fosse un pezzo forte della collezione, di tale valore da nominare la mostra in suo onore”

“E quale sarebbe questo pezzo?”

“Un carillon.
Si chiama Il Pianto di Caino”

E la melodia continua a risuonare…

[Continua…]

Luca Tirelli
Gruppo letterario Camarilla Italia