Dopo una piccola pausa, torna l’appuntamento narrativo per spiegare l’ambientazione di Vampire the Requiem della White Wolf, con un episodio che devo dire che è molto sentito.
A parte il travaglio per scriverlo perchè, come al solito, mi sono ridotta all’ultimo e stavolta forse sbaragliando ogni mio record, ma anche perchè oggi parlerò dell’ultima congrega, l’Ordine del Drago.
Nel gioco, al momento di iscriversi, bisogna scegliere un clan e una congrega, banalmente riassumibili come la “stirpe” e il “lavoro”. In passato ho affrontato già il clan che al momento sto giocando, i Ventrue, mentre oggi parlo della congrega, l’Ordine, appunto.
In questo caso, ancora di più rispetto a tutti gli altri, non è possibile descrivere la vastità di sfumature che i Dragoni posseggono: veramente, ho studiato il manuale per giorni cercando di individuare tratti salienti per costruire un racconto scorrevole e spero che il risultato sia adeguato alle aspettative.
Detto questo, direi di lasciarvi direttamente alla storia, buona lettura!
Sofia Starnai
Gruppo letterario Camarilla Italia
http://www.camarillaitalia.com
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Dicembre 2015, Roma, Accademia Romana dell’Ordine del Drago.
“Alla gloria del grande architetto dell’universo, per volere del grande wyrm Septimus Magnus, dichiaro aperto questo caucus.”
Un silenzio elettrico calò nella stanza rotonda dell’Accademia della Fenice. Era strano sedersi lì: quello era un luogo che apriva le sue porte solamente per gli incontri formali dell’Ordine del Drago, i caucus, e ultimamente era un evento più unico che raro vedere riuniti in un unico consesso diversi dragoni dalle altre Accademie italiane.
Testi antichi recitavano che i caucus dovessero essere fatti ogni mese, nelle notti di luna nuova, ma molte cose erano cambiate da quando i primi seguaci di Dracula avevano calcato le terre della Romania, diffondendo la filosofia del conte e i dogmi delle sue tre mogli: troppe, e non tutte in positivo.
In ogni caso, in quella notte fredda di dicembre c’erano almeno trenta dragoni seduti sulle panche che costeggiavano le pareti pietrose e umide della sala rotonda, tutti intenti a guardare i tre che invece torreggiavano su di loro in fondo, di fronte a un grosso tavolo d’ebano su cui era stesa una tovaglia bianca damascata d’argento, con motivi orientali di draghi serpeggianti lungo tutto il tessuto.
Tre dannati, poichè tre sono le teste del drago.
Tre, come le logge dell’Ordine e delle mogli del conte fondatrici delle stesse.
Samar Tarèkh fece aleggiare lo sguardo sull’uomo all’estrema destra, notando come sempre un ometto ben distinto, impettito nel suo completo gessato nero, che scrutava tutto e tutti con fare altezzoso.
Daniele Roccabrivio un ventrue di quelli facilmente ascrivibili nel clichè di “palo in culo”, nonostante all’apparenza fosse abbastanza scialbo, in realtà aveva il privilegio di essere uno dei tre vertici, la testa nera, la loggia dei Misteri.
Loro guidano l’Ordine nel rapporto con le altre congreghe, le aveva detto il suo sire, affidati all’operato della Loggia nera, Samar, potranno aiutarti a rendere più semplice il tuo operato.
Da quello che aveva potuto capire, in realtà, i Misteri erano degli eccellenti politicanti, chi più chi meno. In linea di massima chi sceglieva di votarsi a quella loggia era un ottimo oratore, abile nell’imbroglio e astuto calcolatore, capacità che dovevano essere sfruttate per perseguire i fini di tutto l’Ordine. Problemi con l’ingresso in un certo luogo? Un Misteri avrebbe potuto contrattare con il proprietario et voilà, les jeux sont faits.
Spostò l’attenzione sulle panche sotto allo stendardo che recitava il motto della loggia, oro su sfondo nero.
Al di sotto, cinque dannati di nero vestiti, sempre troppo pochi rispetto a tutti gli altri: era un problema risaputo il fatto che i Misteri scarseggiassero.
Lungo il muro in pietra, comparivano altri tre stendardi di colori diversi: rosso, blu e bianco, con delle scritte ricamate in oro al proprio interno, dei dogmi o motti che sembravano tanto parole artefatte ai suoi occhi, ma si ragguardava bene dall’esprimersi in quell’opinione.
Il pezzo di stoffa azzurro che penzolava sopra la sua testa affermava solennemente: “Studiare e condurre.”
Il suo sire le aveva sempre detto che una delle caratteristiche della Loggia azzurra, quella delle Luci Morenti, era proprio la più ovvia e banale: un manipolo di studiosi, di svariati ambiti e generi, che talvolta preferivano chiudersi nei loro antri, chini sugli scrittoi.
Quando gli aveva chiesto perché, il vecchio mekhet l’aveva guardata con una fermezza stoica e, freddo come il ghiaccio, le aveva ricordato che i draghi azzurri, più di tutti gli altri, ricercavano la trascendenza e votavano la loro esistenza per diventare altro.
Hai dimenticato il tuo giuramento, Samar? Hai promesso di servire la seconda sposa, Anouska.
Anouska, la coscienza. Dracula ne era rimasto fortemente affascinato quando l’aveva vista, questa donna indiana dall’acume prodigioso, diversa, pura, vittima della gelosia della sua prima figlia…
Mara.
L’ordine delle Asce, la loggia rossa da lei fondata, torreggiava dal lato opposto rispetto a dove si trovava Samar insieme agli altri dragoni azzurri. Lembi di stoffa vermigli venivano esibiti con grande orgoglio da quei dannati impettiti, marziali, come ci si aspetta da un ordine di stampo militaresco. Tutti i loro occhi erano rivolti verso un unico punto, un’unica luce e un’unica voce, che pure lei si sforzò di andare a cercare, ruotando il viso verso il tavolo delle tre teste del drago.
Al centro c’era un dannato dall’aspetto lugubre, pallido come solo un nosferatu sa essere, occhi liquidi e fumosi, labbra rinsecchite e capelli ispidi, di un rossiccio smorto e polveroso, raccolti in una coda bassa. Il Drago Rampante, il Comandante delle Asce di cui non conosceva con certezza il nome, era forse il più brutto vampiro che avesse mai visto, brutto quanto terrificante e potente. A guardarlo con molta attenzione senza farsi beccare, Samar si chiedeva come potessero anche solo pensare che quella cosa fosse una donna, addirittura dicevano che si chiamasse Ambra. Sfoggiava una grossa ascia incrostata di sangue rappreso e un fazzoletto sporco, ogni volta di rosso sanguigno vivo: quello era il suo simbolo del voto alla loggia rossa e nessuno, nessuno mai osava emularla.
Proprio in quel momento il dragone anziano stava facendo ciò che più era nelle sue corde: ramanzine, ramanzine come se piovessero. Ogni volta che si era trovata nella stessa stanza dalla sua bocca non erano mai uscite parole di circostanza, nessun elogio, niente di ascrivibile in qualsivoglia positività, come se non esistesse proprio nella sua essenza. Il suo tono di voce, a tratti soffuso, sapeva serpeggiare con maestria di orecchio in orecchio, sferzando bruscamente e schioccando come una frusta sul malcapitato di turno, arrivando a veri e propri ruggiti che facevano rabbrividire tutti, anche chi sedeva al suo fianco.
Quella sera non era certamente da meno e, da come scrutava tutti con aria di commiserazione, i colpevoli erano tutti loro. Samar si costrinse a prestare attenzione, anche se già aveva intuito di cosa si stesse lamentando il Drago Rampante.
“Siete stagnanti. Il cambiamento non vi tange, ma da quanto tempo?”
Nessuno si azzardò a rispondere, provocando una smorfia di scherno.
“Fate le statuine agli elisei, proprio come quegli imbecilli degli Invincibili, nei loro salotti, ma ricordatevelo: voi siete dragoni.”
Samar socchiuse gli occhi reprimendo una risposta che le era balzata in gola e si concentrò sull’altro individuo seduto alla destra del Comandante, un giovane di circa ventiquattro anni, ben curato e impostato sullo scranno di velluto azzurro.
Il Giudice Crepuscolare, la terza e ultima testa dell’Ordine, stava al vertice delle Luci Morenti ed era un vampiro che conosceva molto bene, purtroppo o per fortuna. I suoi occhi emanavano uno strano bagliore e rimiravano il nosferatu al suo fianco, come se ne fosse ipnotizzato, ammaliato, totalmente rapito,
Tutti, bene o male, pendevano dalle labbra del Drago Rampante: le Asce per via del grado che ricopriva, i nosferatu per il loro sangue in comune, gli altri draghi per la sua posizione di rilievo nella gerarchia della congrega; eppure lui, quel Ventrue tanto strano da essersi conquistato il tarocco del Matto, sembrava molto più legato, in un modo che Samar non aveva ancora compreso a fondo.
Distolse lo sguardo. Francesco Roccabrivio non avrebbe mostrato altro per quella notte, sempre se le circostanze non gli avessero permesso di brillare agli occhi di tutti con i suoi soliti ragionamenti altolocati che profumavano tanto di Primo Stato.
Il Drago Rampante intanto stava continuando a parlare. Lei non aveva seguito una parola, forse perché quei discorsi la annoiavano terribilmente: non erano sbagliati, certo, ma ormai ogni incontro con quel dragone si rivelava una ripetizione di uno schema abbastanza lineare che quasi cozzava contro quel concetto di “cambiamento” che tanto era caro all’Ordine tutto.
Ironia della sorte, siamo sempre qui a farci ripetere quanto siamo incapaci, quanto siamo stagnanti e quanto dovremmo tendere alla trascendenza tanto ricercata da Dracula…
“Convocatore!”
Samar trasalì insieme al giovane vampiro seduto in fondo, sotto lo stendardo bianco simbolo di coloro che ancora non avevano scelto la loro strada nell’Ordine.
I Non Votati presenti al caucus quella notte non erano tanti, tre per l’esattezza, ed avevano le facce di chi era stato buttato in una mischia senza capirne alcunché, trovandosi ad annaspare in mezzo a un mare di squali.
Un sorriso accennato le increspò le labbra mentre un ricordo vivido le attraversò la mente.
Il Convocatore sudava freddo. Era un Daeva longilineo, calvo, un dragone originario di Reggio Emilia, ma che da qualche mese si era trasferito nell’Accademia di Bologna, mostrando immediatamente le sue doti di oratore, facendo gola alla Veggente dei Misteri, una Selvaggia di cui ricordava solo un collier di piume corvine sul seno florido.
Nonostante le pressioni, lui non si era fatto sedurre dalla terza sposa e non aveva nemmeno scelto quale tra le tre fosse la sua strada, tuttavia rimaneva il Non Votato con un’esperienza minima da essere, appunto, il Convocatore dei caucus formali.
Diceva la formula d’inizio e di chiusura, controllava lo svolgersi dell’incontro, decideva a chi dare la parola: insomma, un contentino per chi ancora stava nei bassifondi della gerarchia.
“Convocatore.”
Il Drago Rampante lo stava squadrando da capo a piedi, inquisitorio come al suo solito. Sotto sotto Samar era convinta che provasse un insano piacere nel mettere timore e inquietudine, un po’ come tutti i pidocchiosi spettri delle fogne.
“Da quanto tempo stai tra le nostre fila?”
Il Daeva ci pensò qualche istante. “Quattro mesi, all’incirca”
“Hai scelto a quale sposa dedicare la tua esistenza? Mara?”
Tra le Asce qualcuno ghignò, qualcun altro gonfiò il petto, qualcuno ancora annuì con convinzione verso il Comandante, il quale sogghignò compiaciuto.
Poi, il volto smunto del nosferatu ruotò verso la Loggia azzurra, soppesando i suoi membri presenti.
“…o quella stronza di Anouska?”
I suoi occhi incrociarono quelli di Samar e per qualche attimo tutto fu risucchiato in un limbo cupo.
Una delle lezioni fondamentali che le aveva dato il suo sire era quella di essere apatica, non mostrare alcunché, perché per un mekhet è importante rimanere un’ombra evanescente, nelle retrovie, a margine della scena.
Ergi uno scudo, nascondi te stessa.
Ma come fare a trattenersi di fronte alle continue provocazioni? Come non esplodere di fronte all’indifferenza dei suoi confratelli, muti e inerti?
Perché i votati ad Anouska non insorgevano?
Sentì la gamba destra irrigidirsi. Una pulsione viscerale iniziò a corroderle le interiora, come un verme, adagio adagio e sempre più a fondo; avrebbe artigliato qualsiasi cosa con le mani, eppure si sforzava di non farlo, di rimanere lì ferma come una stalattite, odiandosi perché complice di quell’ennesima disfatta, mentre il Drago Rampante non reprimeva un ghigno beffardo, dedicando attenzioni alla loggia nera dell’ultima sposa, Lisette.
Man mano che la tensione scemava, alle orecchie le giunsero le parole del Convocatore, che di nuovo affermava di non aver scelto, provocando lo sconcerto del nosferatu.
“E un maestro?” chiese, incalzante “Lo hai trovato almeno un maestro?”
“Non ancora.”
“E cosa cazzo stai aspettando?”
“Credo che…”
“Sbrigati a trovarlo. Il rapporto maestro e allievo è qualcosa che va costruito subito e che t’impedirà di fare errori…quindi entro due mesi voglio che tu abbia un maestro, così come tutti voi altri.”
I due dragoni a fianco del Convocatore annuirono, bianchi come le camicie che indossavano. Poi accadde tutto senza troppi pensieri: improvvisamente la mano destra di Samar era scattata per richiamare l’attenzione del Daeva e la sua voce, orientaleggiante e sicura, gli aveva chiesto il permesso di intervenire.
Gli occhi del Drago Rampante erano serpeggiati di nuovo sulla figura minuta vestita d’azzurro che flemmaticamente si avvicinava al centro della sala, di fronte al tavolo delle tre teste del drago.
“Tarèkh.” Sbottò.
“Drago Rampante.”
“Allora ce l’hai la lingua, mh?”
Uh, le colleziono. Vorrei pure la tua, un bel pezzo d’antiquariato che farebbe faville nel mio arsenale.
“Così pare.”
“Che fine ha fatto il tuo sire? È sempre vivo il Mago?”
Francesco Roccabrivio, che fino a quel momento non l’aveva degnata neanche di uno sguardo, la guardò in faccia e, sporgendosi verso il Drago Rampante, disse:
“Credo sia ancora chiuso da qualche parte, ritirato a vita privata” sul volto gli si dispiegò un sorriso beffardo “Asceta, si fa chiamare.”
Provocazioni, ancora provocazioni.
Guardò il Drago Rampante con aria di sufficienza.
Chissà che cosa vuoi, tu, da me…
“Non so cosa stia facendo il Mago” replicò sfoderando tutte le sue doti diplomatiche “Non è un padre molto presente, né tantomeno pressante.”
Si lisciò la giacca damascata e riprese:
“Comunque, ho chiesto la parola perché vorrei fare una semplice osservazione, su ciò che è stato detto sul rapporto maestro e allievo.”
Iniziò a passeggiare in circolo.
“Credo che la scelta debba essere ben ponderata e che un dragone dovrebbe avere tutto il tempo di decidere e scegliere. Il cammino per la trascendenza è irto e pieno di ostacoli, pericoli, che potrebbero portare chiunque alla perdizione o peggio, alla stagnazione. Un maestro dovrebbe seguire questo percorso, sempre, plasmando la materia e permettendo di essere plasmato dall’allievo a sua volta. Non è qualcosa da prendere a cuor leggero: va scelto con cognizione di causa.”
Guardò il Convocatore e i Non Votati al suo fianco.
“Ero come voi, qualche anno fa. Mi si chiedevano tante cose e spesso alcune erano…complicate.”
Fece qualche passo, fin quando non fu abbastanza vicina da allungare un braccio e sfiorare le loro spalle.
“Prima di scegliere un maestro, fatevi questa domanda: chi siete voi? Che tipi di allievi siete? Di cosa avete bisogno? Avete bisogno di una guida costante, che non vi lasci mai, o siete in grado di camminare da soli con qualche spintarella? Guardatevi intorno.”
Li lasciò vagare con lo sguardo sulle varie figure presenti.
“Ognuno di questi dragoni è un maestro diverso. Alcuni non vorranno neanche prendersi allievi, perché consci di non esserne in grado, oppure perché non vogliono spendere tempo. Altri vi accetteranno solo per fare numero e mostrare quanto sono abili nel circondarsi di piccoli cuccioli di drago a cui insegnare il più completo niente, esibendoli come trofei; altri ancora pretenderanno tanto e vi daranno poco, alcuni vi doneranno tutti ciò che possono, come un padre fa con un figlio. Guardatevi intorno…e scegliete quello che è più affine ai vostri bisogni.”
Voltò loro le spalle e fece per tornare al suo posto, quando la voce roca di Francesco Roccabrivio le pizzicò fastidiosamente le orecchie.
“Da come parli, sembra che non vi siano molti maestri degni di questo nome, o no?”
La mekhet ruotò la testa in direzione del Giudice Crepuscolare, scontrandosi contro la sua espressione ferma e le labbra serrate. Di rimando gli restituì una glaciale risposta, una scudisciata in pieno petto, detta con tono sferzante:
“Maestri non si nasce. Maestri si diventa…e non tutti ci riescono, nonostante si raggiunga il titolo.”
Non disse più nulla e nemmeno lei. Il caucus continuò e così com’era cominciato si concluse, con la formula di chiusura detta dal giovane Convocatore e al grido “hic sunt”, tutti risposero con un ruggente “dracones”.
Gli occhi di Francesco Roccabrivio, gelidi e penetranti, non la abbandonarono un istante, nemmeno quando uscì dalla stanza rotonda: sembravano trapassare le pareti.
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Qualche notte più tardi.
“Tu proprio senza istigarlo non ci sai stare, vero?”
Samar sospirò e non gli rispose. Malachia scrollò le spalle e non replicò: ormai era abituato alle cose non dette della mekhet, d’altra parte erano un tratto caratteristico della votata ad Anouska e forse di tutti i suoi consanguinei.
Eppure, in fondo, lui sapeva che Samar Tarèkh nascondeva molte più cose di quanto si potesse mai immaginare. Una volta l’aveva vista sfogare una rabbia tale che aveva evirato cinque uomini, con una rapidità e minuziosità chirurgica che gli avevano fatto accapponare la pelle, a lui, che della tortura faceva il suo vessillo e vanto!
A guardarla la Luce morente sembrava una donnetta piccola, esile, tutta libri e rituali occulti, un topo di biblioteca nel vero senso della parola, talmente anonimo da passare inosservato ai più.
Lui, però, l’aveva capito subito che aveva qualche scheletro nel cassetto, non solo perché personificava uno dei tarocchi più controversi del mazzo degli arcani maggiori, la Luna, ma anche per un semplice ma efficace detto: le acque chete rompono i ponti.
E lei avrebbe potuto sbriciolarli, se solo avesse voluto.
“Ti ha detto perché volesse vedermi?”
“No. Forse è per quello che hai detto al caucus.”
Francesco Roccabrivio era stato chiaro: Samar doveva essere scortata nella biblioteca dell’Accademia e nessun’altro doveva entrare a parte lei. Non aveva fatto domande, perché sapeva che non avrebbe ricevuto risposte, il Giudice Crepuscolare non era dell’umore e lo aveva capito dai suoi strani occhi, tinti di un nero innaturale. Chissà che diavoleria stava combinando, il Matto…
Si grattò una guancia lasciando il sangue sulle unghie. La ferita si era riaperta, ma non faceva troppo male, giusto un pizzicore piacevole.
La prossima volta sarebbe dovuta andarci giù pesante.
La sua maestra si aspettava che fosse abbastanza temprato per il livello successivo, per poter apprendere il potere di essere meno vulnerabile al fuoco, la Spira dei Flagelli.
I marchi sulle mani erano quasi scomparsi. Un’altra cicatrice gli ornava il collo, un’altra l’avambraccio. Il simbolo era sempre lo stesso: il numero romano dell’undici, il tarocco della Forza. Il tarocco della sua maestra, marchiato a fuoco sulla pelle: un memento, simbolo del fatto che lui era suo e suo soltanto.
Non che gli dispiacesse, Hana Bi era veramente una bellissima donna, come tutte le Daeva che si rispettassero. Affascinante e altrettanto letale: non c’era Ascia, nella penisola, che uguagliasse la sua potenza, a parte il Drago Rampante.
Il rosso spiccava sulla sua pelle diafana e lo portava con rigore marziale tipico dell’oriente che l’aveva creata, sia come donna umana sia come vampira; lui l’aveva scelta come maestra, perché sapeva che non c’era nessun’altro che l’avrebbe reso la macchina da guerra che desiderava essere, nessuno avrebbe temprato il suo spirito e il suo corpo e nessuno lo avrebbe guidato nel diventare un valido condottiero dei draghi rossi.
“Ancora giochi con il fuoco, Malachia?”
L’occhio indagatore di Samar lo stava studiando, altro aspetto che aveva imparato a conoscere con il tempo.
“E ancora non mi sono bruciato” replicò, con un sogghigno.
Lei rise in un modo che difficilmente le vedeva fare e annuì.
“Cosa dice il clan delle roselline del tuo bel faccino tumefatto? Non sono loro i cultori del bello di tutto ciò che è esteticamente attraente?”
“Qualcuno ha qualcosa da ridire…alle mie spalle.”
Non poteva dire di avere un’aura d’inquietudine come quella dei nosferatu o del Drago Rampante, ma la sua stazza piazzata e muscoli ben messi lo rendevano abbastanza grosso da evitargli rotture di palle con qualche fricchettone o checca Invictus.
“Beh, Luna” si fermò di fronte a una grossa porta a vetri, da cui proveniva una luce fioca e traballante. “Sei arrivata. Buona fortuna.”
Non gli giunse una risposta, se non il profumo dell’olio di sandalo della mekhet che pian piano svaniva, come la sua figura oltre le porte della biblioteca.
Prima si amano, poi si odiano…e un giorno di questi uno dei due sarà morto.
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La biblioteca era illuminata da candelabri poggiati sui due tavolini d’ebano, accostati in modo da formare una lunga e unica tavolata. La luce pallida delle fiammelle raggiungeva a stento le scaffalature ai lati, polverose e ricolme di libri, lasciando nell’oscurità le altre più lontane.
Seduto in fondo, nella zona in penombra, abbastanza vicino da far percepire la sua sagoma e tanto lontano da non permettere di coglierne i particolari, sedeva il Giudice Crepuscolare. L’anello d’acciaio rifletteva la luce e spiccava sulla sua mano destra, mentre un leggero bagliore s’irradiava dal suo collo, dove da tempo si era impiantato delle placche di una lega metallica con qualche composto alchemico.
Dall’altro capo della tavolata, una poltroncina di velluto l’aspettava, invitante quanto minacciosa.
“Siediti, Samar.”
“Starò in piedi”
Ci fu una smorfia rumorosa di scherno.
“Riproviamo…il Giudice Crepuscolare, Francesco Roccabrivio, Maestro della Maledizione Selvaggia, il Matto, il tuo maestro, ti ordina di sederti.”
Meccanicamente la mekhet scostò la poltrona e vi si abbandonò. Con le candele e la distanza, il volto del Roccabrivio sembrava ancora più lontano e più cupo.
“Sai perché sei qui?”
“Ho qualche supposizione”
Tacquero, rimanendo a fissare l’uno la sagoma dell’altra.
“Inizio a non sopportare più questo tuo atteggiamento.” disse infine il sangue di re “Ultimamente lo stai facendo un po’ troppo spesso e la mia pazienza ha un limite.”
Samar trattenne un insulto, aggrappandosi ai braccioli della poltrona.
“Devi smetterla di irretirmi.”
“Stavo solamente esponendo la mia teoria, al caucus. Ti sei sentito offeso dalle mie elucubrazioni?”
Fermati, ora fermati.
Ma i palmi si erano già poggiati sul tavolo per permetterle di far leva sugli avambracci, il busto si stava sporgendo leggermente in avanti mentre la lingua già si era mossa con le labbra, sillabando metà della frase che le era balenata nella mente, con tono tagliente e velenoso:
“Hai qualcosa da rimpiangere, forse, nel tuo rapporto maestro e allieva?”
“BASTA!”
Un ringhio basso si levò nella penombra, insieme al pugno destro che si schiantò violentemente contro il tavolo, facendola sobbalzare sul posto e ritrarre repentinamente.
Non lo avrebbe mai ammesso, l’orgoglio lo divorava quasi quanto la superbia: Francesco Roccabrivio non sbaglia, non lo faceva mai e non lo avrebbe mai fatto.
Eppure eccola lì, di fronte a quello a cui aveva dato una fiducia estrema, quello che avrebbe dovuto condurla, quello che avrebbe dovuto confidare nelle sue capacità, quello che aveva scelto lei, di sua spontanea volontà…
“Sfrontata” le sibilò con disprezzo
“L’allievo è riflesso del suo maestro” replicò prontamente.
Cadde un silenzio di tomba, persino l’aria sembrava risentirne, diventando più pesante e densa. Samar percepì dei lunghi respiri profondi mischiati a ringhi flebili che man mano diminuivano di intensità, fino a sparire del tutto.
Lo sentì fare una smorfia e mormorare qualcosa di cui carpì solamente la parte finale: “…ancora non lo sai.” C’era qualcosa di strano nel tono di voce del Giudice, sembrava quasi malinconia, ma non era sicura che un individuo del genere potesse mostrarsi in quello stato.
“Dovrei punirti, nel peggiore dei modi per il tuo comportamento.” mormorò ancora “Come il cane che morde la mano che lo nutre!”
Nutrirmi…tu?
Roccabrivio inspirò profondamente con il naso.
“Ma non lo farò, non oggi: tu rimani quella che ha creduto in me sin quando non ero niente. Hai creduto in Francesco Roccabrivio quando era una semplice Luce morente, e di questo devo rendertene conto.”
Samar poggiò la schiena sul velluto della sedia, rilassando parzialmente i muscoli.
Io ho avuto fiducia in te, Francesco. Ma tu?
Ricordava bene la notte in cui una spaurita mekhet aveva chiesto a un ventrue dall’ego smisurato di essere il suo maestro, perché in lui aveva visto qualcosa e aveva voluto seguire l’istinto. Eppure, nel corso degli anni, spesso si era chiesta se non avesse preso un abbaglio, se non avesse deciso frettolosamente perché qualcuno le aveva detto di muoversi: aveva forse sbagliato?
Non si era data per vinta.
Aveva lottato, con tutta se stessa, per spiccare tra la gramigna e ci era riuscita: tuttavia non poteva dimenticare il passato e la rabbia le azzannava lo stomaco ogni volta che abbassava la guardia.
Molti le avevano chiesto perché non si fosse cercata un altro maestro, e lei a tutti aveva risposto che ancora non era finito il tempo del Roccabrivio, ancora aveva qualcosa da darle.
Anche lei, in fondo, era corrosa da una stilla di orgoglio che le impediva di staccarsi definitivamente da quel dannato che odiava con tutta se stessa, ma contemporaneamente ammirava in un modo che non voleva neanche ammettere.
“Non siamo qui a parlare di quanto sia difficile essere il tuo maestro, nonostante sarebbe un’interessante conversazione” continuò il ventrue “Ma di come dovrai muoverti nei prossimi mesi.”
Il legno della poltrona fece un rumore secco, seguito da passi soffusi che man mano si avvicinavano a lei. La luce delle candele irradiò tutta la figura del Giudice, mostrando un abbigliamento inusuale, poco elegante, liso in diversi punti e sporco di polvere. Il volto era stranamente scavato, pallido, con profonde occhiaie e venature nerastre lungo le tempie, mentre lo sguardo, duro e serio, era caratterizzato da un insolito colore indaco, macchiato di argento.
Gli occhi scuri della mekhet si persero in quella sfumatura, dimenticandosi di quanto potesse essere pericoloso guardare così un ventrue, il re della manipolazione della mente.
Cosa sei? Cosa diamine sei?
Fu tentata di usare i suoi doni da mekhet, sfruttare la vista amplificata per capire di più, ma fu distratta da un fascicolo che le cadde dinanzi, una ventina di fogli con una rilegatura azzurra.
“C’è un nido, nella periferia di Roma, che devi vedere.”
“Di che tipo?”
Le labbra del Matto si dispiegarono in un sorriso sornione che le bastò per capire.
“Ho messo tutte le informazioni nel fascicolo e ho già contattato le Asce per organizzare la tua protezione.” Le scoccò un’occhiata complice “Malachia, per l’esattezza. So che ti trovi bene con lui”
“È uno che sa il fatto suo.”
“Già. Intrigante.”
Samar roteò gli occhi al cielo: la detestava quella parola, forse perché lui la ripeteva decisamente troppe volte.
“Mi aspetto un bel lavoro.” Concluse l’altro, mentre si avvicinava alla porta “Degno dell’unica spiritista rimasta nella penisola italiana…e della mia prima allieva.”
La Luna rimase sola nella stanza. Rilassando completamente il corpo, socchiuse gli occhi e fece una smorfia.
La prima allieva…
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Gennaio 2016, Eliseo di Roma.
Il ricevimento della Lancea Sanctum in onore del nuovo anno stava proseguendo con una serie di clichè abbastanza banali e ridondanti: la messa, l’omelia del Vescovo sui “lupi di dio” e la contrapposizione tra preda e predatore, la comunione con le vittime.
Alderico Fontanafredda congiunse le mani sul tavolo e lanciò l’ennesima occhiata in tutta la stanza.
I Dragoni, con i loro vestiari rossi, blu o bianchi, risaltavano ai suoi occhi nonostante cercasse di concentrarsi su tutti i presenti per individuare delle interazioni particolari che lo smuovesse da quella stasi deleteria.
I dragoni capiscono, accettano e abbracciano il cambiamento.
Il primo principio dell’Ordine, quello che reputava più importante, era un mantra che si ripeteva continuamente per cercare di ricordarsi il suo scopo ultimo, la trascendenza, o Grande Opera, come dicevano molti.
Siamo solo di passaggio.
Guardò l’Invictus nella sua immobilità composta, polverosa e vecchia.
Noi dragoni diventeremo altro, non saremo vampiri per sempre.
Le spire, quei poteri che permettevano a qualsiasi dragone di cercare di contrastare i più grossi nemici di un dannato, erano state create per questo.
La gerarchia nell’Ordine si era sempre basata su questo: i gradi rappresentavano le spire che un dannato aveva, partendo dallo Schiavo con zero all’Architetto con nove.
Lui ne aveva sette, era un Filosofo ed era ancora un Veggente, il primo gradino dei dragoni neri. Tutti i votati alla Loggia dei Misteri erano soliti avere un numero molto alto di spire: storie sull’Ordine dicevano che questo era dovuto al fatto che i dragoni neri dovessero vegliare sugli altri e prevedere gli accadimenti, in modo da tracciare la rotta per l’intera congrega.
Non apprezzava chi li definiva dei semplici politici: non erano questo, non soltanto almeno.
Loro dovevano far sì che i dragoni prendessero il cammino migliore e per farlo dovevano avere tutte le abilità per individuarlo prima che questo potesse essere perso con decisioni affrettate.
Spostò lo sguardo verso la zona del Movimento Cartiano e lì soppesò una figura precisa, studiandone la fisionomia e gli atteggiamenti.
Remo e Romolo Mazzarosa, draghi gemelli, uno blu e uno rosso, gli avevano descritto Flavio Della Torre minuziosamente, partendo dalla sua psiche malata per le torture e la passione viscerale per le armi da fuoco che adorava sfoggiare in ogni spedizione di assalto.
In quel momento Alderico stava vedendo un nosferatu repellente, con un brutto ghigno sulla faccia spettrale e leggermente scavata, una certa presenza fisica e diverse fondine ripulite a dovere dalla guardia dei santificati che si erano premurati di eliminare ogni arma dai propri invitati.
Socchiudendo gli occhi, tirò un profondo respiro.
Fai il tuo dovere, l’Ordine ne ha bisogno.
Si alzò. La sua figura svettò su tutti gli altri, una macchia nera da cui spuntava il volto di un uomo sui trent’anni, dai capelli biondicci e la pelle olivastra.
Un gangrel cartiano, membro del suo branco, lo riconobbe e gli diede una pacca sulla spalla, alla quale ricambiò affabilmente.
Il Della Torre, guardingo, lo squadrò da capo a piedi e per qualche istante Alderico dovette sfruttare tutto il suo self control per non soccombere all’aura di inquietudine che quel dannato emanava.
Nosferatu, dannati loro.
“Che ci fa un dragone qui, nella tana del lupo?”
“Lupo? Siete forse un santificato e mi sono perso qualcosa?”
Il cartiano sghignazzò. Un buon modo per iniziare una conversazione politica era far divertire il proprio interlocutore, soprattutto se l’obiettivo era di chiedere qualcosa. In quel frangente il gioco era facile: i santificati si prestavano bene, quasi quanto gli Invincibili, oltre al fatto che il nosferatu gliel’aveva servita su un piatto d’argento.
“Col cazzo!” esclamò il cartiano, abbastanza forte da far girare qualche membro della Lancea Sanctum, al quale rifilò un’occhiata abbastanza eloquente. Prima di tornare a guardarlo, fece un cenno agli altri di allontanarsi, cosa che avvenne dopo qualche minuto.
“Dunque” la voce dello spettro era ridotta a un sussurro “Qualcuno mi ha detto che volevi parlarmi di una certa questione…e direi che hai scelto un momento del cazzo, Fontanafredda.”
“Romolo e Remo vi avranno accennato…”
“Romolo.”
Entrambi si soffermarono sul dragone vestito di rosso, abbastanza a disagio per non avere le sue lame da pugno tra le mani. Un tritacarne vivente che spezzava costole e spine dorsali come se fossero pezzi di pane, allievo, niente poco di meno che il Drago Rampante, del quale aveva appreso l’autorità e il suo essere una presenza scenica fastidiosa.
Aveva sentito che quel dannato aveva un arsenale nell’Accademia, collocato nei sotterranei, dove teneva una collezione di armi da taglio di diversa fattura e provenienza: sciabole, coltelli rituali, katane, spade lunghe, corte, a due mani, alabarde…
Come ogni Misteri, Alderico aveva le sue stanze in cima, una chiara metafora del suo dover vedere “oltre” e prevedere di conseguenza: da quella posizione riusciva a controllare chi entrava e chi usciva senza problemi dal rifugio dei dragoni. Ogni giovedì Romolo Mazzarosa partiva a mezzanotte e tornava circa un’ora dopo con un grosso sacco e dopo qualche minuto dai sotterranei si sentivano urla che andavano scemando, fino a sparire del tutto.
“Con Remo non ci puoi fare un discorso senza andare a finire nelle sue stramberie” aggiunse il cartiano.
Alderico non si sentì di contraddirlo. Remo era qualcosa che esulava dalla sua comprensione e, probabilmente, pure i suoi stessi compagni di Loggia avevano qualche problema con lui. Per fortuna non era affar suo, non avrebbe saputo gestire qualcuno che non era capace di disciplinare nemmeno se stesso.
Il problema arrivava quando doveva interfacciarsi anche con le Luci Morenti: sperava ogni volta che qualcuno, come Francesco Roccabrivio o Samar riuscissero a tenerlo sotto controllo, perché lui non era un tipo tanto paziente. Non gli ci volle molto a trovarlo: lo stralunato nosferatu si stava muovendo in quel suo modo strano, agitando il busto un po’ a destra e un po’ a sinistra, come se fosse preda a qualche delirio insano, parlando con il Roccabrivio, del quale riuscì a carpire una domanda tagliente: “Hai qualche problema di movimento, Remo?”
“Veniamo a noi” gli occhi fumosi del nosferatu erano di nuovo puntati sul suo volto “Vuoi un lasciapassare per entrare nell’ex manicomio…che sta nella mia giurisdizione.”
“Vedo che Romolo ha già anticipato molto di quello che avrei voluto dire”
“Non proprio tutto, non ha parlato di ciò che mi darete in cambio voi dragoni.”
Il Veggente socchiuse gli occhi e, con calma, iniziò ad esporre la sua proposta:
“Sappiamo che adorate particolarmente dilettarvi con la polvere da sparo, in diverse tipologie di armi. Ecco, ma se vi dicessi che esiste un modo per rendere ancora più letali i proiettili che sparate? Qualcosa che li renda unici?”
Il nosferatu inarcò un sopracciglio.
“I proiettili sono proiettili. È l’arma a fare la differenza e a stabilire quanti buchi in pancia posso farti ogni secondo che passa.”
“Ma io vi dico” Alderico abbassò la voce, costringendo l’altro ad avvicinarsi “Che c’è un modo per far sì che anche i proiettili siano caratteristici.”
Si guardò intorno e, tendendo il collo verso l’orecchio del nosferatu, mormorò qualcosa che gli fece sgranare gli occhi.
Colpito.
“…è possibile?” chiese, ancora incredulo
Il gangrel annuì. Si stava trattenendo dal mostrarsi troppo tronfio, altrimenti avrebbe potuto sospettare qualcosa, tuttavia un sorrisetto compiaciuto che gli piegava gli angoli della bocca non riusciva a non mostrarlo.
“Per te, Della Torre, l’Ordine lavorerà su questo.” Aggiunse “Le nostre fila hanno diversi menti di spicco che ne saranno certamente liete…dopo aver visto l’ex manicomio.”
“E chi mi dice che non sia una truffa?”
Alderico scrollò le spalle e rispose con una domanda retorica, insidiosa e volontariamente provocante: “Avete mai visto l’Ordine del Drago creare qualcosa di falso e non funzionante?”
Affondato.
No, ovviamente. La risposta era no. Le Luci Morenti facevano un bel lavoretto quando si trattava di orpelli e oggetti dalle caratteristiche speciali.
Sapeva di aver tentato Flavio della Torre. Non aveva dubbi che avrebbe accettato l’offerta, anche rimuginandoci sopra, perché non gli era stato descritto come un completo stupido. La sua folle mania per le armi, unita all’allettante proposta, creava un connubio perfetto per poter tenere in pugno un dannato.
La trattativa si concluse e Alderico Fontanafredda si allontanò con un sorriso trionfante che si infranse non appena pensò a come l’avrebbero presa i diretti interessati, coloro che nell’Ordine creavano: le Luci Morenti.
Lanciò un’occhiata verso una bella giacca blu damascata e i capelli lisci corvini della Luna.
Di tutte le assegnazioni, quell’arcano maggiore era perfetto per Samar, sembrava cucito addosso e lei la incarnava alla perfezione in tutte le sue sfumature.
Si sarebbe infuriata, ne era certo, ma lui sapeva come giustificarsi: doveva indicare la via alla congrega.
Lui era un drago nero.
Un figlio di Lisette.
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Febbraio 2016, Ex manicomio Santa Maria della Pietà.
“Samar, non allontanarti troppo.”
“Non farmi da balia. Non ne ho bisogno.”
Malachia alzò il volto verso il soffitto e chiuse per un attimo gli occhi.
Che faccio, vado di la a ricordarle cosa fa l’Ascia a suon di pugni o adotto la diplomazia?
Sospirò, esasperato. I draghi azzurri sapevano essere veramente fastidiosi quando si trattava di nidi o di qualsiasi cosa di occulto che riguardasse il loro campo di studi. Anche lui era interessato, ovviamente, ma sapeva riconoscere quando la situazione era sicura e quando serviva una certa accortezza. Probabilmente questa sua linea di pensiero era influenzata dal suo essere un drago rosso, un figlio di Mara e non di Anouska come la mekhet che doveva proteggere.
Si diresse verso la stanza adiacente, i pezzi di vetro scricchiolarono sotto le suole degli scarponi. Quel posto ormai era abbandonato da anni, preda di vandali e drogati. Disseminate per tutto lo stabile c’erano diverse siringhe, preservativi usati, spazzatura di vario genere. Ogni finestra era stata rotta, le pareti deturpate da murales dal gusto estetico opinabile e il mobilio o era stato bruciato o distrutto.
Poi siamo noi, i mostri.
La figura minuta della Luce morente era china su un complesso disegno fatto di un composto verdognolo e vischioso, che stendeva sapientemente con un pennello da vernice. L’odore era nauseabondo, ma lei non sembrava prestarvi attenzione, tanto era concentrata nel suo operato.
Malachia si appoggiò allo stipite incrociando le braccia.
Aveva tanto potenziale, Samar Tarèkh.
Non solo perché il suo sire era stato il più grande spiritista nel suolo italiano e il suo maestro era il Giudice Crepuscolare, ma perché lei sembrava curare tutto nei minimi dettagli, orchestrando rituali dai profondi significati filosofici, legando astrologia, geomanzia, botanica e simbologia occulta in un complesso disegno che lo affascinavano.
Nonostante questo, nell’Ordine era considerata meno di quanto ci si potesse aspettare.
“Non ti faccio da balia.” Le rispose, con tono da rimprovero “Io devo proteggerti. O meglio, devo proteggere i segreti dell’Ordine del Drago che, in questo momento, risiedono in te.”
“So badare a me stessa, questo è il mio campo.”
“Abbiamo affrontato già questo discorso, non farmi ripetere le cose. Tu ti affidi a me e io mi affido a te, è così che funziona.”
Costeggiò la stanza facendo bene attenzione a non pestare il disegno e si posizionò di fronte a lei.
“E poi, non voglio perdere la mia Luce Morente preferita”
Lei alzò lo sguardo, rifilandogli un’occhiata che conosceva molto bene e che, ogni volta, lo faceva ghignare divertito.
“Lo so che sbavi dietro al Giudice Crepuscolare” lo rimbeccò “Non prendermi per il culo”
Si aspettava pure quella risposta, eppure non riuscì a non ridere.
Samar si mise in piedi e iniziò a posizionare alcune pietre, dei cristalli, su precisi punti del disegno. Dopo averlo guardato un paio di secondi, fece un cenno in sua direzione.
Uscì dalla stanza e si diresse verso l’androne del maniconio, dove trovò esattamente dove lo aveva lasciato, un uomo di mezza età sdraiato per terra incosciente, legato per mani e piedi, con un lungo camice bianco addosso. Se lo caricò sulle spalle come se fosse un sacco di patate e lo portò dalla mekhet, che attendeva con un coltello ondulato tra le mani.
Attese ancora le direttive della ritualista e, quando carpì il cenno di assenso, prese l’arma e, con un taglio netto, il morso d’acciaio sprofondò nella carodite dell’uomo, eruttando sangue purpureo dall’odore ferroso.
Qualcosa in lui si smosse, la sete che iniziava a farsi sentire o la bestia che ringhiava, tuttavia si costrinse a trattenersi, perché al momento doveva rimanere vigile sul rituale che doveva svolgersi.
Si posizionò fuori dal disegno come gli era stato ordinato e osservò Samar bagnarsi le dita di sangue e sporcare un ciondolo, una pietra azzurra, che pendeva dal suo collo.
“Ci presentiamo con rispetto a te, spirito, donandovi il sangue di chi in passato era un aguzzino in questo luogo, con questo sacrificio noi chiediamo di mostrarti, spirito. Con questa offerta chiediamo di poter accedere al nido che tu stai preservando, avendone cura come nessun altro potrà mai fare.”
Cadde il silenzio. Malachia aveva i muscoli contratti, la mano destra che ancora stringeva il coltello e la sinistra chiusa a pugno. Stava immobile, ma gli occhi scattavano da tutte le parti, posandosi ora su Samar, poi sul cerchio, poi sulle finestre spaccate, sulla porta, sulle pareti, consapevole che qualsiasi cosa si sarebbe palesata di lì a poco.
Non sbagliò, infatti.
Impovvisamente, al centro del disegno, dove risiedeva l’uomo ormai morto, iniziò a formarsi una coltre nebbiosa che aumentava progressivamente andando a coprire tutta l’area delimitata dal composto vischioso e verdognolo. Poi, al centro, una sagoma cominciò ad essere più nitida, una donna scarmigliata, ricurva, priva di occhi e costellata di rughe.
La vide avvolgere la vittima con le sue lunghe braccia scheletriche, come se lo dovesse studiare, ma non disse nulla. Fu la voce di Samar a torreggiare sulla creatura, ferma e sicura:
“Spirito!”
La vecchia alzò in modo innaturale e repentino il viso verso la mekhet, come se potesse realmente vederla. Il banco di nebbia si mosse lentamente insieme a lei, diretto verso la Luce Morente, tendendole un braccio.
Non assecondarla, non assecondarla, non…
Fu rapido, troppo rapido. La mano sinistra di Samar, tesa verso la creatura, fu avvolta da una lingua grigia che si estese su tutto l’avambraccio, tirandola verso il centro del disegno.
Cazzo, no no no!
Malachia si mosse, celere come una saetta. L’essere una Succube in questo caso si rivelò una fortuna, perché grazie alla sua innata velocità riuscì a prendere la mekhet per la vita e tirarsela via, sgusciando fuori dalla stanza con un battito di ciglia.
Lei intanto, sulla sua spalla, lo stava tempestando di innocui e flebili pugni.
“Il rituale…il rituale! Va chiuso…VA CHIUSO!”
Si dovette trattenere, ancora una volta, dal rifilarle uno schiaffo. Non che non volesse darglielo, in realtà temeva di romperle l’osso del collo: quando si incazzava non riusciva a domare la forza.
L’avrebbe portata in Accademia e lì, solo lì, le avrebbe fatto ricordare il dovere dell’Ascia…facendole pagare un conto salato per la sua imprudenza.
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Una settimana dopo, Ateneo delle Luci Morenti.
L’Ateneo sorgeva su una montagna a ridosso degli appennini tra l’Emilia Romagna e la Toscana, ed era uno stabile solido dal colore bianco tipico del marmo di Carrara. Sopra la porta principale troneggiava il simbolo del compasso dipinto d’azzurro e il motto delle Luci Morenti in latino.
Samar arrivò lì alle prime ore della notte, dopo un viaggio abbastanza estenuante fatto a piedi dalla valle. Non si poteva raggiungere il posto in nessun altro modo, un simbolo, secondo il Prorettore, del cammino che la Luce morente deve fare per arrivare alla conoscenza, faticoso e irto di ostacoli.
Sulla vetta, due ghoul vestiti con tonache bianche l’accolsero e le indicarono le stanze a lei adibite, le ricordarono le regole e gli usi del posto, invitandola a lasciare ogni effetto personale all’ingresso.
Anche in questo caso, il simbolismo era evidente: nel luogo della conoscenza lei perdeva ogni fronzolo e si mostrava per ciò che era, una Luce Morente, un dragone che saliva la scalata della trascendenza.
Si tolse gli abiti, ripiegò con cura la giacca damascata, tolse gli anelli e le spille, lasciò la collana con la pietra azzurra, dalla quale fu difficile staccarsi, come sempre.
Dopo essersi messa una tonaca azzurra, chiese dove poteva trovare una certa persona, l’unico motivo per cui aveva intrapreso quel viaggio.
Uno dei due ghoul l’accompagnò nell’ala ovest, laddove risiedevano tutti gli spiritualisti. Nell’aria si sentivano odori diversi, fragranze esotiche e a tratti allucinogene, erbe aromatiche e spezie particolari che attirarono l’attenzione della giovane mekhet, da alcune stanze provenivano alcune cantilene in lingue conosciute e sconosciute, da altre l’odore ferroso del sangue arrivò a pizzicarle le narici e la gola.
Il suo accompagnatore si fermò di fronte a una porta un po’ più piccola delle altre ma visibilmente massiccia, sembrava quasi incastrata con le pietre del muro. Prima di andarsene, le porse un candelabro acceso, come era solito fare di fronte a quella stanza.
Samar lo ringraziò e lo guardò andarsene. Dopo un inutile respiro profondo, abbassò la maniglia e spinse con forza la porta.
La luce del corridoio si dilagò tra le tenebre, facendole percepire la presenza di tre scalini subito di fronte a lei. Quando il buio fu di nuovo sovrano, si appoggiò al corrimano e iniziò a scendere, aiutata dalla calda luce delle candele.
La stanza era come se la ricordava, un antro non troppo grande che sembrava un sotterraneo, privo di finestre, con ampie scaffalature di tomi e boccette dai contenuti non troppo identificabili.
Odore di polvere, muffa e sangue le arrivarono immediatamente al naso, qualcosa a cui ormai era abituata quando scendeva in quella cripta.
Nonostante conoscesse quel posto a menadito, non era ancora riuscita a superare il senso di timore che ogni volta provava a stare lì dentro, priva di difese tranne per la luce fioca del candelabro a rischiarare l’oscurità.
Sapeva di non essere sola.
Su un tavolo posto in un angolo, c’era una grossa sagoma in movimento, lenta e calcolatrice, che armeggiava con qualche alambicco, visto il rumore di vetri cozzati che sentiva ogni tanto.
Samar si fermò sul posto e spinse il candelabro in quella direzione, cercando di carpire qualcosa di più sull’operato del Mago.
Lo aveva visto lavorare spesso, molto più di qualsiasi altro, eppure ogni volta ne era affascinata: aveva una maestria tale che le faceva pensare che quel tarocco, il Mago, fosse il più azzeccato che potesse avere.
Fece un passo. La luce rischiarò il profilo dell’anziano, mostrando un paio di occhialetti calati sul naso e simboli esoterici disseminati sulla guancia e la tempia.
Chiuse gli occhi. Quando li riaprì non c’era più.
Che cazz…
“Ti ho detto più volte di non avvicinarti mentre sto lavorando, Samar”
Sobbalzò. La voce proveniva dalle sue spalle, vicina, talmente tanto che riusciva a percepirla sul suo orecchio sinistro.
“Scusatemi, padre.”
Il Mago le sfilò di fianco, mostrandosi ulteriormente alla luce della candela. Poteva avere circa ventisette anni umani, ma non ne era certa. L’unica cosa che sapeva era che Tarèkh, così veniva chiamato da tutti perché a nessuno aveva detto il suo nome, era molto anziano e da tempo si era chiuso nell’Ateneo in un ascetismo che da tanti non era stato accettato.
Le indicò il tavolo dalla parte opposta rispetto a dove stava lui e lei andò a posizionarcisi. Non aveva mai capito perché odiasse lavorare alla luce, più volte aveva chiesto e più volte aveva ricevuto risposte vaghe.
“Ho poco tempo” disse, con voce piatta e vagamente stanca “Ma sono sempre disposto ad aiutare la Luce morente e la mia progenie.”
“Ci sono stati problemi con un nido e lo spirito che gli fa da guardia.”
Samar iniziò a spiegare la faccenda, mentre il Mago armeggiava ancora con i suoi aggeggi. Ogni tanto lo vedeva fermarsi, soppesare qualcosa e mugugnare: lei si fermava a sua volta attendendo una sua risposta ma questa non arrivava, quindi continuava il racconto, giungendo rapidamente alla conclusione.
“Vedo che ti sei dimenticata del primo insegnamento che ti ho dato quando abbiamo parlato di spiritismo e ritualismo.” Sbottò tranquillamente il vecchio mekhet “Mai entrare nel cerchio rituale. Mai.”
“Ma non ci sono entrata, io…”
“Incosciente.” La apostrofò, lapidario “Pensavi forse che ti volesse stringere la mano, lo spirito? Quelle sono creature pericolose e mi sembra di avertelo detto, più volte: il ritualista calibra tutto sul rischio…”
“…la sua bravura dipende da quanto è capace a ridurre la percentuale di pericolosità che ogni rituale possiede.” Concluse lei, arrogante.
Tarèkh tacque. Per un attimo la progenie fu certa che il sire stesse per manifestare tutta la sua autorità, punendola come solo lui sapeva fare. I ricordi fluirono come fiumi straripanti e il terrore l’autentico terrore, dilagò nella sua esile figura, sconquassandola con due brividi ben assestati.
“Non hai dato il sacrificio giusto” disse infine l’altro “Troppo poco pregiato. Quello spirito non ti farà mai accedere al nido se gli porti un…”
“Uomo, un discendente di uno degli psichiatri dell’ex manicomio. Credevo potesse apprezzare la linea di sangue…”
“Troppo poco.”
Samar fece un gesto stizzito con le mani, picchiandosele sulle cosce.
“E allora cosa vuole? Tutta la famiglia? Sangue di medium? L’intero ordine degli psichiatri italiano?”
“Il tuo sangue.”
La Luna si bloccò. Il Mago stava ancora facendo le sue cose, tranquillamente, come se quello che aveva detto fosse la cosa più banale del mondo.
“Io non posso dargli il mio sangue…si creerebbe un vincolo. Anouska lo condannò, vietò i legami di sangue con le creature ultraterrene, pena la morte ultima!”
“Non farti scoprire.”
“Ma il mio sangue non è speciale! Sono una mekhet, cosa potrà mai farci? Qualsiasi altro potrebbe andare bene…”
Per la prima volta in tutti gli anni che aveva avuto modo di vivere insieme a lui, il Mago fermò il suo lavoro e la guardò. Non li vedeva, ma era certa che gli occhi severi, neri come la pece, la stessero guardando profondamente, in un modo che non aveva mai fatto prima. Ci fu un millesimo di secondo di indecisione e poi la risposta:
“No. Il tuo.”
Il tono secco la ammutolì. Iniziarono ad affiorare delle domande che le morirono sulle labbra, conscia che non avrebbero ricevuto una risposta chiara e limpida. Si alzò, di scatto, prese la candela e a grandi passi si diresse verso l’uscita.
“Troverò un altro modo.” Dichiarò.
Lui, alzando gli occhi verso la giovane, replicò con una domanda:
“Quando lo ammazzi il tuo maestro?”
Non gli rispose. Uscì definitivamente, mentre lo sentiva ridere e dire a bassa voce “sei come lei”; lo maledì per tutte le ore seguenti, fin quando l’alba non sopraggiunse.
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Marzo 2016, Ex manicomio Santa Maria della Pietà.
La struttura fatiscente svettava nel verde di Monte Mario, l’altura romana che sovrastava il Tevere dalla parte destra. Nuovamente il silenzio e la desolazione accolsero i tre vampiri che, con passo cauto, attraversavano il cortile pieno di arbusti e sterpaglie e si dirigevano verso l’ingresso.
Malachia non era tranquillo.
Era passato un mese dal rituale e non era certo che tornarci dopo così poco tempo fosse saggio, ma d’altra parte il Giudice Crepuscolare aveva parlato chiaro: quel nido doveva diventare roba dei dragoni, prima che i megeriti ci potessero mettere le mani.
Alla sua obiezione sulla sicurezza, gli era stato affiancato Romolo, il Drago Vigilante. Il nosferatu stava alla destra di Samar, con due lame da pugno ben salde e l’orrida maschera d’acciaio fusa su una parte del viso. Il fatto che ci fosse anche lui lo rendeva un po’ meno ansioso, tuttavia non riusciva ad essere totalmente sicuro della buona riuscita della missione. Si era accordato con l’altro di pensare prima a mettere in salvo la Luce Morente e poi dare sfoggio alle loro abilità da combattenti, cosa che il nosferatu non aveva obiettato.
“Non abbiamo vittime”
La Luna gli rivolse un’occhiata obliqua e annuì.
“Non ce ne servono?”
“No. Romolo, potreste…?”
Nemmeno servì finire la domanda: le travi e protezioni sciocche che i mortali avevano messo all’ingresso furono spazzate via.
Samar si spostò rapida verso la stanza dove avevano incontrato lo spirito e Malachia la seguì.
Il disegno era stato cancellato, nonostante vi fossero dei rimasugli del composto ormai essiccato, il cerchio era stato irrimediabilmente distrutto, cosa che fece imprecare più volte la mekhet.
Qualche barbone, probabilmente, non era stato contento della loro incursione e aveva provveduto a chiudere il passaggio agli intrusi, sia dalla porta principale che dalle finestre al pian terreno.
“Nessuno nei paraggi”
Romolo era comparso alle sue spalle, come uno spettro che si rispetti. Entrambi tacquero e si limitarono a guardare Samar intenta al lavoro certosino di riprodurre il cerchio e i suoi simboli.
“Si dice che il Mago fece un’altra magia, tempo addietro”
Malachia inarcò un sopracciglio, mentre il nosferatu continuava a raccontare:
“Ma… era diversa.”
“Magia in che senso?”
Seguì lo sguardo spiritato del Cavaliere, incontrando la figura di Samar.
“Volete dire che…”
“Sono voci. Si dice, inoltre, che sia scomparsa tempo fa, uccisa dal suo stesso maestro.”
“E chi era?”
“Un Roccabrivio.”
Malachia non rispose e si chiuse in un silenzio pensieroso. La Luna intanto continuava a disegnare, totalmente assente dai loro discorsi, anche se non poteva dirlo con certezza. Una volta che ebbe finito, riposizionò gli stessi cristalli sui punti del cerchio e tirò fuori una boccetta di vetro, con del sangue al suo interno.
Sangue di medium?
Riapparve la coltre di nebbia e riapparve di nuovo lo spirito della vecchia. Stavolta era più riottosa, selvatica, era palesemente sul piede di guerra e la cosa non gli piaceva neanche un po’. Romolo, dall’altro lato della stanza, stava pronto ma apparentemente più tranquillo di lui, che sperava che Samar non facesse sciocchezze.
Nel momento in cui le mani scheletriche della vecchia presero la boccetta e il sangue fu parte della sua essenza, qualcosa cambiò nella sua espressione, che si tinse di una sorpresa che incuriosì anche lui. Il sangue di medium era molto pregiato, ma mai aveva visto uno spirito comportarsi in quel modo dopo l’assaggio: doveva esserci qualcosa di più in quell’ampolla, qualche asso nella manica che la mekhet non aveva rivelato a nessuno.
“Romolo, Malachia”
La Luce morente stava rilassando le spalle, con lo sguardo fisso sullo spirito.
“Io mi fido dell’Ascia, che questo sia chiaro.”
La coltre di nebbia iniziava a diventare sempre più fitta, arrivando ad avvolgere i suoi piedi, senza toccarla per davvero.
“Fidatevi della Luce morente adesso.”
Cominciava a vederci male. La nebbia aveva inglobato completamente Romolo, non riusciva più a vederlo. Provò a dire qualcosa, ma si rese conto che la sua voce non aveva un suono e che le sue membra erano rigide come stalattiti.
Frustrato, ringhiò, ma non ci fu nulla se non la voce della mekhet.
Prima di essere inghiottito anche lui, la sentì dire:
“Io mi affido a te, tu ti affidi a me.”
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L’energia fluiva da tutte le parti. Faceva tremare le pareti, il pavimento, la sentiva correre sotto i polpastrelli come un fiume in piena.
Il nido era lì, lo sapeva, non ci volevano studi geomantici per stabilirlo: tutte le fibre del suo essere lo percepivano e si abbeveravano fameliche.
Lei stessa lo era.
Protese la mano verso il bagliore, il nucleo, e percepì un leggero tepore e una scarica di adrenalina fortissima
Questo è un crogiolo.
Un nido importantissimo, la tipologia più rara che l’Ordine può trovare.
Lo avrebbe custodito, con le unghie e con i denti: non avrebbe permesso che la Megera o i Santificati ci andassero a giocare, non dopo ciò che era stata costretta a sacrificare.
Era suo.
O tutto o niente.
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Maggio 2016, Accademia di Roma dell’Ordine del Drago.
“Mi hanno parlato del tuo operato al manicomio”
Il Giudice Crepuscolare giochicchiava con una collana con un ciondolo a forma di drago e ogni tanto lanciava un’occhiata distratta alla sua allieva, la Luna.
“Ho fatto ciò che mi era stato ordinato e ciò che un dragone azzurro deve fare.”
“Lo spirito ti ha mostrato il nido e abbiamo il suo lasciapassare. Un altro successo per l’Ordine”
Prese il calice di fronte a lui e lo alzò in sua direzione, dando una lunga sorsata di 0 negativo. Non si faceva mancare nulla, il Matto, oscillava da un estremo all’altro con una rapidità impressionante, come se dentro di lui albergassero due persone diverse: una legata allo sfarzo, una alla miseria. Lo lasciò a crogiolarsi nella bambagia ed uscì dal suo ufficio, dirigendosi verso una meta imprecisata. Si trovò a passeggiare per i corridoi, con una mano a sfiorare la pietra azzurra che le pendeva dal collo e lo sguardo vacuo.
Pensieri, tanti.
Doveva decidere come scusarsi con Malachia, che dopo la faccenda al manicomio si era talmente innervosito che non le parlava da quando era riuscito a riprendersi.
Aveva messo in conto anche questo, d’altra parte aveva rischiato volontariamente la sua esistenza lasciando due Asce completamente inerti, pisciando sopra il loro colore e la loro Loggia.
Come spiegare che non c’era altro modo?
Come fargli capire che doveva osare, per poter ricevere grandi risultati?
Un ritualista gioca con la morte in ogni momento, le Asce dovevano conviverci.
Poi c’era la faccenda di Flavio Della Torre, e di come il Fontanafredda avesse promesso qualcosa che un cartiano non avrebbe dovuto mai avere.
Il Giudice Crepuscolare si era pietrificato e, glaciale, le aveva detto che avrebbe rimediato alla faccenda di persona: forse era la volta buona che quel gangrel mettesse la testa a posto e evitasse di vendere cose di cui non aveva conoscenze.
“Samar?”
Si voltò, incuriosita. La voce non era una di quelle che aveva sentito spesso, infatti non si sorprese troppo quando vide il Convocatore.
“Convocatore.” Gli fece un leggero sorriso “Avete bisogno di qualcosa?”
“Tristan. Mi chiamo Tristan” la affiancò e le fece cenno di continuare a camminare “Vorrei chiedervi qualcosa…sulla questione del maestro”
La donna inclinò il capo, sorridendo un po’ più ampiamente.
“Ho riflettuto, dopo il caucus. Io ho bisogno di una luce, in queste tenebre. Ho bisogno di qualcuno che mi guidi, perché sento che da solo farò dei danni o che agirò senza riflettere e…”
“Sarò la tua maestra, Tristan.”
Si fermo e gli posò una mano delicata sulla spalla.
“Un allievo sceglie il suo maestro e anche il maestro sceglie il suo allievo.” fece un occhiolino “Io ti avevo già scelto.”
Gli diede due colpetti leggeri e, superandolo, continuò:
“Avremo diverse cose di cui parlare, immagino. Vieni, cominciamo subito: come avrai visto questa congrega è fatta di squali che godono degli errori dei neofiti e, sinceramente, il nonnismo non mi è mai piaciuto.”
Iniziarono a parlare della storia dell’Ordine, le tre spose, la trascendenza. Fu un dialogo sentito, filosofeggiante, in cui rispose ai dubbi del suo allievo e lui stesso la fece riflettere, in uno scambio continuo, circolare, una dialettica hegeliana con tesi, antitesi e sintesi che la riempì di orgoglio.
No, lei non avrebbe abbandonato i suoi allievi sperando che si rialzassero da soli.
Lei li avrebbe guidati e cresciuti, e con loro sarebbe cresciuta a sua volta.
L’Ordine del Drago non avrebbe più avuto un prodotto incompleto.
Mai più.
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“Alla gloria del grande architetto dell’universo, per volere del grande wyrm Septimus Magnus, dichiaro chiuso questo caucus”
Hic Sunt Dracones.