In una notte di Luna nuova

Buongiorno! Torna l’appuntamento mensile per spiegare l’ambientazione di Vampire The Requiem della White Wolf, con l’espediente narrativo!
Dopo aver narrato le vicende di tutti i clan e tutte le congreghe, ammetto di aver trovato un po’ di difficoltà nel decidere come proseguire. Tuttavia, con alcuni consigli, ho voluto riprendere alcune trame che in questi mesi ho lasciato in sospeso, magari estendendole per renderle più impegnative: il requiem d’altra parte è anche questo! Quindi, il nuovo progetto è rendere protagonista un personaggio o due e inserirli in una trama che avrà minimo due puntate, dipende dalla storia che si andrà a creare.
Per questi due mesi saremo in compagnia di Edoardo Borgia, giovane mekhet che sfrutta tutto ciò che può per salire la gerarchia della sua congrega, la Lancea Sanctum. L’ultima sua comparsa è stata nel racconto dei nosferatu, quando ha stretto un accordo con Romolo Mazzarosa, priscus del clan, chiedendogli di trovare il rifugio di Lucrezia D’Angiò (se non sapete di cosa sto parlando, andate a rileggere gli altri racconti, in particolare “Ombre”, “In nome del Padre”, “La voce fuori dal Coro” e “La necropoli”).
Come si evolverà la vicenda?
Se avete qualche personaggio che ho descritto che  vi ha colpito e di cui vorreste sapere di più, fatemelo sapere!

Buona lettura!
Sofia Starnai
Gruppo letterario Camarilla Italia
http://www.camarillaitalia.com

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Luglio 2019, Roma.

Quella stanza aveva uno strano effetto su di lui: lo rendeva nostalgico e malinconico.
Il tavolo con la tovaglia scarlatta e il simbolo della Lancea erano ancora lì, intatti, il pugnale dalla lama ondulata stava adagiato delicatamente di traverso, come se fosse una reliquia e due candelabri illuminavano il sotterraneo con una pallida luce tremolante.
Se si soffermava ad osservare il pavimento, Edoardo riusciva a vedere ancora la chiazza di sangue che Federico d’Angiò aveva lasciato quando la sua progenie gli aveva strappato l’esistenza con le sue stesse zanne: se si sforzava, sentiva ancora le urla e l’odore ferroso insinuarsi nelle narici.
Comparivano le figure, Rodrigo Settala e la sua letale lama grondante di sangue, i Crociati che ghignavano, gli Inquisitori che plaudevano la disfatta dell’eretico e la mano serpentina di Elena Barberini che s’insinuava sotto la sua camicia, spudorata quanto desiderosa.
Ricordò come se fosse ieri il fastidio e il suo pensiero:

Ma non ha un minimo di cuore? Deve pensare a questo anche adesso?

Sapeva la risposta, in realtà, ma era troppo giovane per accettarla.
Vide Lucrezia e i suoi indomabili ricci ramati. Vide il suo dolore, lo sentì perforargli i timpani. Apparve il corpo fragile ed esile di una ragazzina, avvolto in una camicia da notte macchiata dell’onta più grande: il patricidio. Mentre studiava il suo profilo e il percorso di una lacrima che dalla guancia si schiantava contro il colletto di pizzo, aveva pensato che lui l’avrebbe aiutata a superare tutto questo, lui, il suo maestro negli Esorcisti, lui, il suo più fedele e fidato compagno.
Suo padre era un eretico, ma lei si sarebbe rialzata, come tutte le regine che si rispettino.
Le era stato accanto, ogni notte. Aveva sopportato i suoi lamenti, aveva cercato di rendere tutto più facile, scontrandosi anche con i suoi interessi, limitando i suoi incontri privati con la Barberini e subendo la sua ira.
L’aveva protetta dalle angherie del Settala, dalle malelingue e dalla sfiducia degli altri santificati, l’aveva impegnata in studi che si era inventato solo per lei e questo sembrava averla riportata con i piedi per terra, sembrava che avesse voltato pagina e che avesse compreso il motivo per cui il suo sire era morto.
Ne era certo, Lucrezia era rinata ed era stata opera sua.

Eppure…

Digrignò i denti. Era una notte di luna nuova, quel primo ottobre, una condizione che in esoterismo aveva diversi significati, alcuni ricordavano il concetto di rinascita, altri di tenebra, alcuni ancora di cambiamento. A ripensarci sembrava quasi ironico, ma il mekhet non aveva riso quando si era reso conto che la D’Angiò era scomparsa dai suoi alloggi e che di lei non c’era più traccia.
Andata. Sparita.
Sotto al suo naso!

“Ti vedo contrito, Edoardo”

La voce atona del De’ Ricci lo fece ripiombare nell’umido sotterraneo vuoto. Poco distante, a qualche passo di fronte a lui, il punto su cui era morto Federico D’Angiò mostrava il solito mosaico a croce, il simbolo della congrega santificata.
Il vecchio nosferatu stava seduto sul suo scranno, una sedia tempestata di tarli e dai braccioli polverosi e macilenti, quasi quanto l’Arcivescovo stesso.
Nonostante dimostrasse tutti gli anni che aveva, il De’ Ricci era pur sempre l’Inquisitor Maior e il più anziano di tutta la congrega. Il suo potere, la sua bestia, erano impareggiabili e più volte l’esorcista era stato spettatore della sua furia terrificante: era qualcosa che non si poteva dimenticare così facilmente.
Seppur provasse una paura quasi schiacciante, Edoardo si costrinse ad alzare lo sguardo su di lui. La maschera d’acciaio lasciava scoperte le labbra pallide e gli occhi cinerei e indagatori, saldamente fissi sulla sua figura.

“Lo sono.”

Sulle labbra del nosferatu ci fu una parvenza di un sorriso, che durò solo un istante.

“Sei sempre così sincero” replicò “E terribilmente umano.”

S’irrigidì. Quella critica ormai gliela facevano in troppi, veramente troppi: iniziava ad essere stanco, ma non avrebbe mai osato rivelarlo all’Arcivescovo.

“Sai perché sei qui?”

No, non lo sapeva. In realtà qualche domanda se l’era fatta, ma erano congetture. Il suo dovere da esorcista lo stava facendo e anche discretamente; era un’ombra, ma il ruolo del leader gli calzava a pennello, quasi come se fosse un ventrue. Il suo gruppo di esorcisti lo seguiva fedelmente: ispirava fiducia e nessuno si era mai messo in testa di sfidarlo.
Sentì la risata cristallina di Lucrezia, talmente vicina che pensò di avercela alle spalle.

Sciocco.

S’impose di non muoversi, o il nosferatu avrebbe sospettato qualcosa.

Mantieni lo sguardo, non cedere.

L’odore di vecchio del sotterraneo scomparve, sostituito dalla lavanda che emanava lei ogni volta che si ritiravano nelle sue stanze private del rifugio dei santificati.
Non l’aveva mai toccata, mai.
Si era immaginato cosa volesse dire affondare le mani in quella criniera leonina, avvolgere il corpo di eterna adolescente e bersi ogni centimetro della sua pelle, ma non per questo si era mai azzardato a muovere un passo.
La Barberini? No, non era certo la fedeltà verso di lei a fermarlo. L’Inquisitrice milanese non era altro che una vacca che doveva essere munta e, per inciso, era sempre florida e feconda, per cui utile. Infilarsi nel suo talamo non era altro che lavoro politico, di quello più sporco e probabilmente piacevole che ci potesse essere.
Erano rapporti falsi, come falso era lui che sfruttava deliberatamente la donna e falsa era lei che fingeva di non capire la decadenza a cui tutti erano destinati.
Mostri, nulla più.
Eppure Lucrezia accendeva in lui una speranza, una stilla di luce vivida e rischiarante che non voleva distruggere in nessun modo, anche a costo di mantenerla chiusa in se stesso: tanto era vero quel desiderio, non frutto di vizi e di intrighi politici, che temeva che espletarlo lo avrebbe macchiato in modo indelebile.
Sentì il suo nome sussurrato all’orecchio destro.

È andata via. Via!

I suoni furono risucchiati di nuovo, facendolo tornare di fronte all’Arcivescovo De’ Ricci.

“L’eretica.” Disse, con voce ferma.

Il nosferatu fece una smorfia. Una delle mani adunche si strinse a pugno, facendo sanguinare una stimmate sul palmo.

“Troppi eretici nel giro di poco” sibilò “D’Angiò, Settala…e infine lei.”

“Sto cercando…”

“Cercare?”

Una risata secca sconquassò il corpo grinzoso del vecchio, che si alzò rapidamente picchiando entrambi i pugni sul tavolo. Il rombo di un ringhio cupo instillò nel mekhet un dubbio, un tarlo che si insinuava nella sua solida fermezza, come quello che aveva corroso il legno della sedia dell’Arcivescovo.

“Che cazzo di termine è, mh? Non mi pare di averti dato questo compito, Edoardo Borgia.”

Gli occhi fumosi si ridussero a fessure. Un dito indice scheletrico, con un grosso anello di zaffiri, lo indicò, minaccioso quanto la punta di una spada.

“Tu mi dovevi  portare Lucrezia D’Angiò.” Il vecchio si sporse oltre il tavolo e gli rifilò un’occhiata che lo fece rabbrividire.

La Bestia, la sua innocua Bestia, iniziò ad agitarsi, avvertendolo del pericolo.

E se…

Si guardò intorno. Non c’era nessuno nel sotterraneo, la porta chiusa e solo l’Arcivescovo, un centenario capace di schiacciarlo a terra con un mezzo soffio.
Quando si accorse di aver dato le spalle al nosferatu, ebbe il terrore di trovarselo a un palmo di naso, con il coltello dalla lama ondulata pronta a disegnare affreschi grotteschi sulla sua pelle: si preparò all’ultima stilettata in pieno petto o alle zanne che gli avrebbero squarciato la gola…

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Settembre, Accademia dell’Ordine del Drago di Roma.

“Rialzati.”

Malachia mugugnò qualcosa, sputando sangue nello spazio tra le sue ginocchia. In un millesimo di secondo il corpo robusto del Daeva fu lanciato contro il muro destro della sala degli armamenti, facendo crollare la fila di lame medievali appese ai sostegni di legno. Una pioggia d’acciaio arrugginito lo investì e il clangore delle armi che impattavano sul terreno coprì in parte il suo ennesimo lamento, un mezzo ruggito che manifestava tutto il poco self control che gli era rimasto.

“Rialzati.”

Il Comandante delle Asce torreggiava su di lui, imponente nella sua armatura a piastre che portava come se fosse un abito qualsiasi, leggero come una piuma.
La Succube lo insultò.

“Errore.”

Fece mulinare l’ascia bipenne, una delle sue armi preferite.

Ambaraba…ciccì…coccò…

I profondi tagli sul busto e sulla schiena di Malachia avevano smesso di buttar fuori sangue. Aveva una capacità di rigenerazione molto promettente, glielo doveva concedere, merito della sua maestra Hana Bi.
Era ormai passato un anno dalla sua sparizione e lui aveva preso le redini di quel cavallo impazzito che era la Loggia rossa: un branco di ragazzini privi di disciplina, coriacei quanto un fuscello e deboli, fottutamente troppo deboli.

Ambarabà…ciccì…coccò…

L’ascia roteò ancora nella sua mano destra, come un giocattolo: il suono della lama che tagliava l’aria lo inebriò.
Dal momento della sua nomina a Comandante aveva preso sul serio il suo compito e si era messo ad addestrare tutti gli Scudieri, per renderli le macchine da guerra che lo stesso Drago Rampante desiderava. Non avrebbero mai potuto essere come lui, un terminator inarrestabile e privo di pietà, ma sperava che fossero abbastanza resistenti da non crollare di fronte a un ostacolo o un nemico che fosse diverso da umani, ghoul o vampiri che giocavano a fare i soldati.
Aveva bisogno che fossero rapidi, concisi e capaci di proteggere i segreti dell’Ordine del Drago, l’unica cosa che contava per tutti i figli della Loggia di Mara.

Ambarabà…ciccì…coccò…quale arto ti taglierò?

La lama calò inesorabile sull’avambraccio destro di Malachia, tranciandolo di netto.
L’arto mutilato divenne cenere nel giro di qualche secondo, mentre nuovo sangue veniva versato sul pavimento polveroso della stanza: non era la prima volta e non sarebbe stata neanche l’ultima.

“Fai sempre il solito errore, Malachia”

Si piegò sulle ginocchia, in modo da potergli arrivare vicino al viso. Sapeva cosa stesse vedendo il Daeva: uno spettro con una maschera fusa sulla parte destra del viso, occhi bianchi privi di qualsiasi umanità e il numero romano del sette marchiato a fuoco sulla guancia sinistra.

“La volta scorsa ti ho tolto una mano. Adesso l’avambraccio.”

La mano sinistra raggiunse il colletto dello Scudiero e lo strinse con forza.

“Continua a farlo…” un ghigno “…e ti stacco la testa.”

Lo tirò su con uno strattone.

“Nel campo di battaglia gli insulti non serviranno a un cazzo. Vuoi essere una bestia? Una macchina da guerra? Impara a tenere a freno i tuoi impulsi da idiota…perché potresti non avere sempre me come avversario.”

Lo lasciò andare, definitivamente. Ci avrebbe messo due settimane a rigenerarsi, all’incirca, poi sarebbe tornato con più rabbia in corpo di prima: come da copione, come tutti i Daeva, le emozioni non avevano filtri e fuoriuscivano come fiumi in piena.
Prese un panno sporco e lavò via il sangue dall’ascia, con minuzia e devozione, trattando il filo come un’amante. Con una smorfia guardò la strage delle spade medievali, cadute per il colpo troppo forte per degli insignificanti assi di legno e chiodi d’acciaio. Avrebbe inviato degli inservienti, laggiù, per risistemare quel macello e nel farlo si sarebbe gustato la loro espressione inorridita per il pensiero di doversi calare nell’antro sotterraneo di Romolo Mazzarosa, nell’arsenale degli orrori.
Duecento lame di diversa fattura e provenienza ornavano le mura della stanza degli armamenti: spade lunghe, corte, asce, alabarde, sciabole, katane, coltelli dal filo dentellato, lance del nord e faretre piene di frecce dagli impennaggi di anatra.
Era la sua collezione, la sua preziosa collezione.
Man mano che risaliva le scale in pietra i rumori dell’Accademia riaffiorarono insieme ai suoi odori e luci. Alcuni inservienti stavano parlottando di strani marchingegni nella stanza di Remo, roba elettrica e sostanze altamente corrosive.
Il Comandante fece una smorfia seguita da un sospiro scocciato. Chissà che diamine stava combinando il suo pazzo gemello da mettere in allerta i ghoul dell’Accademia: sperava vivamente che non facesse esplodere nulla, altrimenti avrebbe dovuto di nuovo scontrarsi con il Giudice Crepuscolare e diamine, quello lì sapeva essere un grandissimo rompicoglioni.
Perché allora stava andando proprio nel suo ufficio?
Questioni di lavoro, si era detto. Parlava poco a Francesco Roccabrivio, il giusto insomma, gli donava quel cenno di rispetto e falsa sottomissione che tanto piaceva ai sangue di re e garantiva la sua protezione durante gli elisei, ma mai si era messo a perdere tempo con il Matto, il numero zero.
Non gli interessava, ecco la questione.
Bastavano le lamentele di suo fratello su come fosse megalomane a tenersi lontano dalle rogne: non era un tipo che aveva pazienza, nonostante fosse più fermo mentalmente rispetto al suo gemello.
Eppure, quella notte Romolo stava risalendo i gradini per il primo piano dell’Accademia e si stava dirigendo verso l’ala dei draghi azzurri, a est.
Francesco Roccabrivio era seduto dietro una grossa scrivania di ciliegio a scrivere qualcosa al portatile. La luce elettrica gli illuminava il viso e si rifletteva sugli occhi dalle iridiscenze violette e ambrate, che si spostarono rapidi su di lui non appena varcò la soglia.
Un sopracciglio perfettamente curato formò un arco e un’espressione che tutti i dragoni conoscevano si dipinse sul volto del ventrue: superiorità, fastidiosissima aria altezzosa miscelata con una punta di sorpresa.

“Aah” tolse le mani dalla tastiera e poggiò entrambi i gomiti sul tavolo, inclinando la testa di lato “Romolo Mazzarosa. Qual buon vento vi porta sulla superficie? Non avete nessuno da torturare oggi?”

Ho già voglia di strappargli la lingua.

“Per voi sono il Comandante Mazzarosa” replicò, rigido “Sono qui per parlare di qualcuno.”

 

Il ventrue lo squadrò e per un attimo Romolo credette che avesse la faccia tosta di ribattere a tono ma, per fortuna, cambiò discorso.

“Se il vostro gemello vi ha inviato a riferirmi i suoi piagnistei, beh, direi che è abbastanza puerile, oltre che codardo.”

Ed ecco che ci risiamo. Adesso cosa hai combinato, Remo?

Roteò gli occhi al cielo. Non aveva tempo per quelle bambinate, ma ne avrebbe discusso in privata sede con chi di dovere: a volte sentiva il peso di essere il maggiore, anche se di soli sette minuti.

“No, non è di lui che mi interessa al momento.”

Il sopracciglio dell’altro disegnò ancora un arco perfetto.

“Beh” gli fece un cenno verso la sedia libera “Accomodatevi”

“Un Comandante non riposa mai.”

“Ah! Ambra direbbe la stessa cosa.”

Il Giudice Crepuscolare vagheggiò con lo sguardo verso un punto imprecisato, completamente assente. Romolo sbuffò e, picchiando stizzosamente il tacco dello stivale, lo riportò sul pianeta Terra.

“Lucrezia D’Angiò” disse guardandolo rigoroso “Cosa mi sapete dire di lei?”

“Ah, la concubina di Goffredo Vaccaro, quella rossa che ancora ha il latte in mezzo ai denti…già, già.” Digitò qualcosa con la mano sinistra, senza guardare lo schermo. “Cos’altro…non so molto di lei, a parte che è una megerita e che con gli spiriti ci sa fare parecchio, quasi quanto suo padre…”

Fece una mezza risata roca.

“Federico D’Angiò…talmente coglione da farsi sgamare da uno di voi, uno spettro. Grande dote, quella dell’Oscurazione…fortuna ha voluto che quei due non avessero la vista dei mekhet.”

Romolo rimase impassibile. Rodrigo Settala era morto come traditore della Lancea Sanctum e il De’ Ricci non aveva voluto sentire il suo nome nei nove mesi successivi e, nonostante il tempo, ancora oggi reprimeva la rabbia quando qualcuno ricordava solo il suo cognome.
La verità stava proprio sotto agli occhi di tutti, ma molti non avevano tutti i tasselli e altri fingevano di non vedere il mosaico che incombeva su di loro: lui era uno di quelli che sapeva ma taceva, per convenienza s’intende.
Quando qualche membro della famiglia Settala gli avrebbe fatto un’offerta generosa per ripulire la macchia che la infangava, allora, forse, si sarebbe esposto con l’Arcivescovo.
Lucrezia D’Angiò tanto traditrice era e traditrice sarebbe rimasta, con l’aggravante di aver ucciso uno dei Crociati più valorosi della Lancea Sanctum.

“È schiva” continuò il Roccabrivio “Difficile è avvicinarla o avvicinarsi…Goffredo le sta attaccato alle costole, tant’è che la protegge con una scorta di Selvaggi ovunque lei vada. Tiene a quella ragazzina in un modo morboso, cosa che ad alcuni accoliti non piace.”

Romolo soppesò le informazioni e poi si congedò. Prima di sparire dall’ufficio, la voce roca del Giudice gli giunse alle orecchie per l’ultima volta:

“Tenete a bada vostro fratello. Potrei non essere così paziente, la prossima volta.”

Il drago rosso non battè ciglio e replicò prontamente:

“Certamente. Voi rivolgete sempre uno sguardo alla vostra Luna, che queste sono notti strane: una magia potrebbe portarvela via.”

Non giunse una risposta, ma non ce n’era bisogno. Per una volta tanto, Francesco Roccabrivio non era riuscito a controbattere.

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Eliseo di Settembre, Roma.

“C’era bisogno di mettere fuori gli aguzzini a controllare?”

Edoardo socchiuse gli occhi e inspirò profondamente con il naso. Il brutto muso di Romolo Mazzarosa, Priscus degli spettri di Roma, invadeva il suo campo visivo imponendosi su tutta la stanza che era riuscito a trovare libera in quell’eliseo affollato. Diversi dannati erano giunti dalle città italiche,  talmente tanti che neanche l’imponente palazzo che l’Accademia del Buon Gusto aveva messo a disposizione riusciva a contenerli: qualcuno era uscito fuori per cercare la privacy che, per inciso, nessuno avrebbe potuto avere davvero.
Lui, che era un mekhet, lo sapeva benissimo. I suoi sensi amplificati gli avevano permesso di origliare cose che per altri erano inarrivabili e la sua capacità di oscurarsi era stata fondamentale per infiltrarsi in situazioni che sarebbero state scomode, se solo i partecipanti lo avessero visto.
Era un rischio, già, ma si permetteva di correrlo solamente quando era certo che non vi fossero altri mekhet nei paraggi che potessero identificarlo subito.

“Abbiamo bisogno di riservatezza” replicò “Visto ciò di cui dobbiamo parlare”

Le labbra livide del nosferatu fecero una smorfia di sdegno.

“E credete, forse, che mettere due cazzo di Crociati fuori dalla porta non attiri abbastanza l’attenzione?”

Merda.

Romolo scosse la testa.

“Principiante.” Lo apostrofò “Ma per fortuna qui dentro ci sono ben pochi ad avere acume.”

Alzò un indice in sua direzione, impedendogli di replicare.

“Voi non siete uno di quelli.”

Edoardo si trattenne dallo sputare insulti. I nosferatu sapevano essere fastidiosi, sempre, in qualsiasi evenienza, bastava solo l’odore di fogna che si portavano appresso a fargli torcere le budella.
Non si era dispiaciuto quando aveva scoperto della morte di Rodrigo Settala. Era un Crociato, un confratello, ma senz’altro era l’essere più ripugnante con cui avesse mai avuto a che fare, per cui nel suo piccolo aveva gioito nel sapere che non avrebbe più visto la sua brutta faccia.
Era quasi certo che se solo ne avesse avuta l’opportunità gli avrebbe piantato la sua lama in pieno petto, sbavando come un cane rabbioso.
Romolo Mazzarosa non era da meno, doveva ammetterlo. La sua furia, però, raramente si vedeva negli elisei, dove compariva sempre rigido come uno stoccafisso. ‘Comandante’, lo chiamavano i dragoni, alcuni semplicemente ‘sette’, anche se non capiva a cosa potesse riferirsi quel numero che bruciava la sua carne sulla guancia destra. L’unica cosa di cui era sicuro era che quel dannato aveva un’aura strana, sembrava avere una flemma innaturale, instabile, pronta a spaccarsi da un momento all’altro e a distruggere qualsiasi cosa: questo lo intimoriva più del sadismo manifesto del Settala.
La cosa positiva era che non ce l’aveva tra le fila santificate e, una volta finita questa faccenda di Lucrezia, non ci avrebbe dovuto avere più a che fare.

“Avete almeno controllato che non ci sia qualche infiltrato?”

“Sin dal momento in cui siete entrato.”

Il nosferatu alzò entrambe le sopracciglia. La pelle dell’occhio imprigionato dalla maschera si tirò in modo raccapricciante che gli mise una voglia spasmodica di finire in fretta quell’incontro.

“Dunque, cosa avete per me?”

“Poco. È sempre scortata da gangrel del Gerofante Vaccaro, il quale sembra volerla proteggere come se fosse qualcosa di estremamente prezioso.”

Lo è. Lo è, maledizione.

“Ho messo a lavoro alcuni spettri, stanno setacciando i possedimenti dei megeriti qui a Roma, ma non escludo che lei sia tenuta al rifugio della Megera, l’Isola d’Elba.”

Edoardo ebbe un fremito. Con straordinaria sorpresa, piantò addosso al nosferatu due occhi furenti.

“Avete coinvolto altri dannati?” strinse un pugno con veemenza “Questa era una faccenda mia, il pagamento per quello che io…”

Di colpo sentì il pavimento lontano dai suoi piedi e, stretta come la morsa di un serpente, la presa di una mano gelida attorno alla sua gola.
Romolo, dal basso verso l’alto, lo guardò freddamente per poi scuoterlo con una facilità disarmante.

“Ha cessato di essere una vostra faccenda da quando ne va della mia posizione nel clan degli Spettri.” Sibilò “Ho diversi motivi, adesso, che mi spingono a voler morta la vostra eretica, Borgia, e qualcuno dall’alto del suo scranno vi considera fragile e troppo patetico per far calare la sentenza di Longino…e direi che abbia pure ragione.”

Un’immagine gli passò come un lampo nella mente e una consapevolezza amara fu chiara come il sole.

“Dovete far attenzione a trattare con gli anziani…”

Lo lasciò. Edoardo crollò di peso in ginocchio, tossendo e massaggiandosi la gola.

“Posso fidarmi dei miei spettri.” La voce di Romolo era ferma, austera “Ma non posso dire lo stesso per voi. Le ombre sono subdole, talmente tanto che sareste capaci di tradirvi a vicenda, così come i re fanno a gara a chi comanda di più e i selvaggi si azzuffano per avere la guida del branco. La mia nidiata è la mia casa. I miei spettri sanno che se agiranno male, troveranno la mia furia…un po’ come te, Borgia.”

Le ginocchia del nosferatu si piegarono e il viso cadaverico fu di nuovo l’unica cosa che vide, talmente vicino adesso da poter notare delle sottili venature violacee scivolargli lungo la tempia libera dalla maschera.

“De’ Ricci vuole che sia tu a uccidere la tua traditrice…ma sappi che non è un coglione. Quindi, rifletti, ombra. Hai capito in che situazione ti trovi? Lo hai beneinteso che se sbagli muori?”

Si alzò rapidamente e le piastre dell’armatura fecero un leggero rumore metallico.

“Avrete mie notizie sulle ricerche. Nel giro di un mese scopriremo dove sta il rifugio privato, ammesso che ne abbia uno.”

Sentì la maniglia abbassarsi e un’ultima raccomandazione:

“Oscuratevi. Hanno visto entrare solo me, e solo me vedranno uscire.”

Non ci fu altro. Romolo uscì come era entrato e lui rimase solo, inginocchiato sul pavimento e raggelato. Si sentì improvvisamente uno sciocco, un ragazzino, stupido e avventato; si rese conto di cosa stesse accadendo e di come la sua esistenza fosse più a rischio di quanto si immaginasse.
Mentre artigliava entrambe le ginocchia con le unghie per il nervoso, la voce sottile di Lucrezia lo schernì:

Non puoi nasconderti di fronte a un anziano…loro hanno vissuto per decenni, anni, secoli!

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Novembre, Civitavecchia.

Il casolare si stagliava silenzioso su una collinetta, fuori dalla città e dal suo caos. Quella notte solo la luce della luna illuminava con il suo pallore quella zona delle campagne di Civitavecchia e, nel buio, Flavio Della Torre mugugnava qualcosa, impaziente, a una figura al suo fianco.
Era un uomo di mezza età, vestito da militare e con delle mostrine da generale attaccate al petto che nell’oscurità si confondevano con tutto il resto, tranne quando i flebili raggi lunari colpivano il metallo dandogli un attimo per poterne riflettere il bagliore. Se solo ci fosse stata la luce, si sarebbero visti i suoi lineamenti scavati, i capelli brizzolati e le ossa degli zigomi prominenti che sembravano incassare ulteriormente i piccoli occhi acquosi nell’orbita oculare.

“Squadra 01 e 02, mi ricevete?”

Erano abbastanza lontani da potersi permettere un tono di voce medio-basso. Difficilmente Flavio si teneva in trincea, ma in quella missione era vitale la discrezione.  Una voce ronzò negli auricolari del generale, che annuì un paio di volte.

“Tenete d’occhio l’area e procedete.”

Il vampiro picchiettò nervosamente lo scarpone destro per terra.

“Non preoccupatevi” lo rassicurò l’altro “I miei uomini sanno cosa fare”

“Lo spero per loro” il tono della replica fu secco e gelido “Sennò che cazzo mi servite, mh?”

La risposta non giunse, non che si aspettasse diversamente. Il generale Rossetti era stato un buon acquisto: il suo corpo militare avevano svolto diverse faccende per il Movimento Cartiano e più direttamente per lui stesso. Si era guadagnato la loro alleanza prendendosi come ghoul il loro capo, il generale, promettendogli la vita eterna e immani poteri, cosa che ormai andava avanti da diversi anni.

Sciocchi umani.

Qualche volta ci aveva pensato seriamente ad abbracciarlo, ma temeva che renderlo una creatura della notte gli avrebbe fatto perdere la posizione tra i militari e, al momento, non gli serviva una progenie da istruire. Fece una smorfia e calciò un sasso. Lui non era il tipo da insegnare passo passo come ci si muove nella danza macabra, i nosferatu non lo erano a prescindere.

Si impara solo soffrendo.

Il casolare era silenzioso in modo quasi irreale. Vero che ci viveva solo la puttanella rossiccia ex santificata, ma si aspettava che ci fosse della servitù, della vita tra quelle quattro mura.
Eppure, le facciate erano delle distese scure su cui non spiccava neanche il baluginio di una luce proveniente da una plausibile finestra; se non fosse stato per la cura del giardino avrebbe potuto anche credere che le sue spie si fossero sbagliate e gli avessero dato un posto del cazzo sperduto in mezzo al niente.
Flavio non voleva sbagliare. Voleva far bella figura con Romolo, anche perché voleva evitare che tutto il merito andasse allo strampalato Remo. Vero, con i suoi trucchetti da dragone di merda era riuscito a identificare una macro area in cui si sarebbe potuto trovare il rifugio di Lucrezia D’Angiò, ma era stato lui con i suoi contatti nella malavita e nell’investigazione a depennare ogni struttura, ogni palazzo e ogni cazzo di sotterraneo.
Quando le sue spie migliori gli avevano indicato la Tenuta degli Aceri come luogo certo, il nosferatu aveva voluto fare di più: facendo un sopralluogo, avrebbe trovato quella ragazzina in modo da avere una certezza assoluta. Chissà, magari Romolo gli avrebbe permesso di trapanarla bene bene, in tutti i sensi, prima di darla in pasto al Borgia.
Il Borgia. Aveva chiesto spiegazioni, si era pure proposto, ma il priscus era stato irremovibile: quel mekhet dall’aria idiota avrebbe messo fine all’esistenza di chi era talmente fastidioso da far muovere l’Arcivescovo De’ Ricci.

E le è andata pure bene, poteva ucciderla lui stesso.

Nonostante gli avvertimenti di Romolo, Flavio non stava notando la presenza dei famigerati gangrel di Goffredo, né tantomeno i megeriti. Si era raccomandato con i soldati: qualsiasi animale che incrociassero nel loro cammino doveva essere abbattuto: cani, gatti, topi, vai sapere quale selvaggio si nascondeva dietro di essi…
C’erano delle guardie, sì, ma facilmente eludibili. I sistemi di videosorveglianza erano stati sapientemente sabotati dai suoi informatici: proiettavano sempre la solita immagine, permettendo ai militari di muoversi come meglio potevano.

“Nulla togliere alla tua scelta, Flavio…” il generale lo guardava dall’alto del suo metro e ottanta con una scintilla di dubbio negli occhi “Ma perché siamo qui a fare ciò che è già stato fatto da altri? Non sapevi già che il bersaglio fosse qui?”

Il nosferatu socchiuse le palpebre e trattenne una bestemmia. Non riuscì però a fermare il suo braccio e la mano, che andò ad aggrapparsi al colletto dell’uomo per tirarlo con forza verso il basso, in modo che il suo viso potesse essere parallelo al suo, un brutto spettro che nella notte era ancora più inquietante.

“A me va così” sbottò “Evidentemente non mi piace il lavoro fatto dagli altri, Rossetti.”

Il ronzio dalle cuffiette del generale bloccò entrambi. Rapidamente Flavio gli strappò uno dei due auricolari e se lo mise, giusto in tempo per sentire la fine di una frase:

“…lei è lì.”

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Luna nuova, passi, tanti passi.
Un drappo rosso, un altro con un simbolo, il Movimento Cartiano.
Passi, ancora passi.
Si avvicinano, marziali, inesorabili.
Visi indistinti, pallidi come cadaveri.
Qualcuno chiama il suo nome, è un sussurro che cresce, cresce fino a diventare un urlo straziante.
Due smeraldi brillano nell’oscurità…no, non sono smeraldi. Sono occhi.
Un anello con uno zaffiro si sostituisce repetinamente e la mano livida che lo indossa schiaccia un serpente, spappolandogli il cranio.

Aprì gli occhi di scatto.
Le candele disposte a cerchio si erano spente completamente, lasciando la stanza al buio.
Si mise in piedi, barcollando appena. I piedi scalzi toccarono il parquet gelido dirigendosi verso un angolo, che si irradiò di luce non appena le imposte di una finestra furono spalancate.
Il cortile della Tenuta degli Aceri apparve di fronte ai suoi occhi, tranquillo e silenzioso, come le sue guardie che pattugliavano l’ingresso e che, vedendola, le fecero un saluto rigoroso e marziale.
Fece un cenno e spostò lo sguardo sulla luna.

Gibbosa calante.

Aveva visto chiaramente un cielo senza luna, nella visione. Guardò ancora il pallido satellite che le restituì un’occhiata muta.
Passi. Li aveva sentiti a centinaia, sembravano dei plotoni d’assalto, i suoni erano troppo coordinati per essere casuali.
Nervosamente agguantò un pezzo di carta e una penna. Scrisse febbrilmente un paio di righe, un elenco di cose con a fianco cinque domande: chi, cosa, come, quando, perché. Goffredo le aveva insegnato che questi erano i quesiti da farsi subito dopo aver avuto una visione divinatoria, un aiuto per poter mettere a posto frammenti apparentemente sconclusionati agli occhi dei profani.
Picchiettò la penna contro il davanzale della finestra.
Cerchiò “quando” e lo collegò alla “luna nuova”. Tracciò una linea che da “chi” si diramava verso il “Movimento Cartiano”, i “plotoni d’assalto dai visi pallidi” e il “drappo rosso”, accanto al quale fece un punto interrogativo.
Si fermò. Rimanevano irrisolte il “cosa”, il “come” e il “perché”.
Sconfortata si prese la testa fra le mani, affondando le unghie nel groviglio dei capelli.

Rifletti.

Qualcosa sarebbe successo in una notte di luna nuova, qualcosa che la riguardava. Aveva sentito il suo nome, mormorato e poi urlato forsennatamente e dolorosamente, aveva visto il simbolo del Movimento Cartiano e sentito squadre d’assalto, probabilmente alleati umani. Annuì.
Il Movimento era noto per i suoi larghi contatti con il mondo dei mortali, probabilmente quelli che aveva percepito erano i passi di ordini militari guidati da qualcuno di loro.
Il drappo rosso non riuscì a collocarlo: era uno stendardo? Un abito? O aveva un significato nascosto?
Scrollò le spalle e passò oltre.
I volti pallidi potevano essere quelli degli alleati militari oppure dei dannati. Quali?
Poi c’era quell’anello con lo zaffiro e la mano che schiacciava il serpente. Istintivamente la giovane si sfiorò la zona sotto l’orecchio destro, nascosta dalla criniera vermiglia. Cercò il punto in cui la pelle liscia lasciava lo spazio a quella ruvida e squamata, il simbolo del suo nuovo segreto.
Un lampo le attraversò la mente, improvviso ma non così tanto raggelante come ci si potrebbe aspettare. Diede un’ultimo sguardo alla luna e poi chiuse le imposte, tornando nel buio totale.
La pietra zaffiro brillò nei suoi ricordi, riflettendo la luce tremolante delle candele dell’umido sotterraneo dei santificati. Tornò alla mente l’odore del sangue, il freddo mosaico che accoglieva muto le ceneri di suo padre, Federico D’Angiò, e il cerchio di dannati che gioivano della sua disfatta.
Ricordò lo sforzo di non piangere, di mostrarsi forte, l’istinto di sopravvivenza messo a dura prova in quel covo di predatori.
Si era imposta di guardare quella grossa pietra sull’anello per distrarsi da chi lo indossava, un nome che adesso nella sua mente compariva chiaro a lettere cubitali.
Cercò la porta ed uscì dalla stanza. Non aveva individuato il significato degli occhi smeraldo, ma ciò a cui era giunta le bastava ad avere una certezza matematica: qualcuno di molto potente aveva mosso le sue pedine per decretare la sua morte.

Lotterò.

Tutti avrebbero capito cosa sarebbe successo sfidandola. Tutti avrebbero visto cosa avrebbe potuto fare Lucrezia D’Angiò.

Continua…

Un commento su “In una notte di Luna nuova”

  1. Ritmo incalzante, tensione crescente… L’unico cruccio dover aspettare un mese la seconda parte 🙁

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