FACILIS DESCENSUM AVERNI – 07 – L’ombra di ciò che era

Benvenuti o bentornati! Quest’anno, per la collaborazione tra le due associazioni Camarilla Italia e Torre Nera, vi propongo un progetto di una storia a puntate, iniziata a gennaio, libera interpretazione delle tematiche del Mondo di Tenebra (ambientazione di alcuni dei giochi di ruolo della casa editrice White Wolf).

Un esperimento, anche per me, che spero possa intrattenere.

Buona lettura!

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Ma altro doveva accadere, prima del giungere della luce.

Non solo ancora non ero tornato nel suo rifugio, ma mi sentivo sempre più debole e stordito. Ogni passo diventa un macigno che trascina le gambe sull’asfalto logoro. Picchio le ginocchia a terra, bruciano, come i gomiti e i palmi. La vista si appanna.

Poi, il buio.

Riesco solo a pensare che tutto questo l’ha voluto Lui, prima di perdere i sensi.

*

Vengo raccolto come un sacco, portato di peso lontano da sguardi, avvolto in una coperta.

Viene chiamato Ghetto dei Dimenticati, luogo di sopravvivenza per chi non ha più una vita a cui tornare. Pensavo vi risiedessero solo i mortali, ma chi mi ha portato lì è diverso.

Lo è stato, poi è diventato altro. Per tornare, infine, indietro.

Uno come me, che è riuscito a levarsi quest’ossessione dalle viscere. Ha compensato con un invecchiamento radicale, ma è tornato in sé.

Quando la vista torna nitida, posso vedere sulla sua pelle ogni più piccola ruga, scavata minuziosamente dal tempo, che ha donato un forte tremolio ai quattro arti. A fatica si siede, non riesce a stare in piedi oltre un certo limite. Mi guarda, e in quelle iridi grigie vedo lo stesso orrore che mi porto dietro da tempo immemore. Senza che gli dicessi qualcosa, comincia a parlare. Il tono della voce è calmo, quasi suadente, rendendo il tutto un po’ inquietante. Mi parla di sé: lui è il servitore che mi ha preceduto. Stava al Suo servizio, e il trattamento subito non è stato certo diverso da quello che sto passando io.

Nel momento in cui aveva deciso di scappare, sapeva che avrebbe dovuto sparire. Anche la polvere è fin troppo rumorosa.

Tornare normale non è stato semplice, specie per il corpo. È dura disintossicarsi da quel nutrimento appagante.

Ma ce l’aveva fatta.

Lo squadro, guardingo. Mi tasto il petto e sento che la collana è ancora lì.

Gli chiedo a che scopo stava dicendo proprio a me tutto questo, e sempre con ammalianti parole, mi risponde: Lui non ha intenzione di trasformarti. Quando si sarà stancato di te, ti getterà nella spazzatura e tu sarai finito. Abbandonalo, finché sei ancora giovane.

Il cuore martella, il cervello si attiva.

Non c’erano state promesse, e io, almeno su questo, non mi ero illuso. Per come mi trattava, non sarei mai divenuto un suo pari.

Ma perché me lo stava dicendo? Perché proprio lui?

Gli dico che non sono affari che lo riguardano, non più. Taglio corto, ringraziandolo per il soccorso. Cerco di alzarmi per andarmene, ma sento che non posso muovermi come voglio: una catena lega saldamente i miei polsi ad una pietra.

Lui ride, divertito. Io ringhio, la rabbia bolle. Tutto ciò è ridicolo.

Credeva di poter tornare alla vita di una volta, ad essere un umano, ma per quanto si fosse sforzato, camminava addosso ai muri come un’ombra e non poteva ambire ad altro. Perché tutto ciò che aveva lasciato, al suo ritorno, non c’era più.

Tornare da Lui così, avrebbe significato la sofferenza eterna. E Lui sa come infliggere dolore.

Ma.

Se adesso fosse tornato con qualcosa di prezioso, avrebbe potuto accarezzare il confine della salvezza.

Aveva imprigionato me, con in mano un’informazione. Mi ero lasciato prendere dai pensieri ed ero finito in trappola come un principiante.

Lui non voleva e non poteva permettersi rifiuti del genere.

Stringo i pugni, devo trovare la forza.

Io non voglio essere un rifiuto del genere.

Spengo il cervello.

Eccola, la Sua macchina infernale.

Con un balzo sono sopra quell’uomo, non fa in tempo a reagire che gli ho passato la catena attorno al collo. Tiro, premo. Lui scalcia, graffia.

Posso sentire il respiro sempre più debole, il sangue rallenta la circolazione e le estremità iniziano a perdere sensibilità. La pelle sembra riprendere colore, ma è solo un istante.

Prima del cervello, i polmoni e il cuore si fermano. Il suo dolore dura ancora un attimo. Crolla immobile, con gli occhi sbarrati e quasi fuori dalle orbite, la bocca aperta ormai secca, un ultimo rivolo di saliva che tenta la fuga verso l’esterno.

Ripensandoci, se gli avessi spezzato il collo avrei risparmiato tempo.

Armeggio con la catena e mi libero.

Prima di andarmene, guardo quegli occhi spenti e ripenso a quelli del cadavere nel vicolo.

Non provo pietà, non provo nulla.

Perché dovrei empatizzare con qualcosa che non ha niente a che fare con me?

Ciò che sono, non è più affare di questo mondo.

Ora basta con queste puttanate, a quando l’agognato pasto?

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Tiziana Valentino

Gruppo letterario Camarilla Italia

www.camarillaitalia.com