FACILIS DESCENSUM AVERNI – 05 – Camminare in quesiti incompresi

Benvenuti o bentornati! Quest’anno, per la collaborazione tra le due associazioni Camarilla Italia e Torre Nera, vi propongo un progetto di una storia a puntate, iniziata a gennaio, libera interpretazione delle tematiche del Mondo di Tenebra (ambientazione di alcuni dei giochi di ruolo della casa editrice White Wolf).

Un esperimento, anche per me, che spero possa intrattenere.

Buona lettura!

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Questa volta uscirò dopo il tramonto, motivo per cui mi ero chiuso nel mio antro di sofferenza per tutte le ore di luce successive al nostro incontro. Il luogo in cui devo andare è principalmente attivo di notte, e non c’è bisogno di essere un mostro assetato di sangue per divenire una bestia notturna.

Mia madre lo era.

Le mie frequentazioni lo erano.

Essere uno di loro mi aveva inconsapevolmente condannato.

Scivolo di nuovo nel mondo sperando che il freddo possa congelarmi le vene e il cuore. Ho imparato a memoria la strada per arrivare al locale, un luogo di periferia ma particolarmente apprezzato in tutto il circondario. Conosco la parola d’ordine per poter accedere, quindi scavalco senza timore gli addetti alla sicurezza e permetto alla musica assordante di entrarmi dentro.

Non è un posto che lui frequenterebbe abitualmente, allora cosa ci faccio qui? Avevo capito ormai da tempo, a mie spese, che fare domande non era consentito. Andare, eseguire, tornare con qualcosa in tasca. Interrogarmi sulle informazioni che pescavo era inutile: parole e azioni si mescolavano perdendosi nel tempo in modo apparentemente casuale e sconnesso. Non ho molto su cui basarmi, questa volta, ma tanto mi basta per distrarmi dalla fame e dall’umiliazione subita.

Ci metto un attimo, poi mi muovo a ritmo di musica. Guardandomi intorno osservo l’orda di gente ancheggiare passiva, braccia al cielo e sguardo a terra. La fauna da discoteca è variegata: c’è chi danza in gruppo e tutti ridono per darsi forza e proseguire per diverse ore in quell’attività, le coppie si strusciano tra loro incuranti della folla e mostrando la conquista di una lingua intrecciata all’altra. Chi è solo tenta un approccio misto tra timidezza ed intraprendenza: sta fermo ai lati del salone ingerendo alcol per annebbiare i sensi e per sentirsi potente, per poi lanciarsi nella mischia con l’obiettivo di rimediare qualcosa di stimolante.

Ho dovuto abbandonare certe pratiche, non c’è più nulla che un posto del genere ha da offrirmi.

Ma nessuno sembra curarsene, chi mi fissa anche solo per un istante non trova interesse in ciò che vede e prosegue oltre. Mi è capitato mi chiedessero qualche dose, intercettandomi in luoghi appartati per poi dover fare i conti con un nulla di fatto. Per un’altra notte, niente polvere. Mi crogiolo nella delusione visibile nei loro occhi, perché posso distaccarmi dalla mia e sentirmi per una volta superiore.

Mi avvicino al bancone, ordino da bere, mi guardo intorno, ancora.

Stringo il bicchiere congelato tra le dita. Vorrei spezzarlo, ma mi trattengo quanto basta per far comparire solo delle minuscole crepe sulla superficie. Bevo un sorso, non sento l’alcol. Come facevano tutti quanti a sballarsi in quel modo con solo un drink di quello schifo?

D’un tratto, mi sento sfiorare un braccio. I peli si rizzano, da lì fino alla nuca. Mi irrigidisco e muovo gli occhi, seguendo una mano pallida con unghie smaltate di rosso percorrermi l’arto fino alla spalla. Mi sforzo di non spezzarle un polso, conosco gli atteggiamenti tipici della donna che ora siede al mio fianco. Mi osserva suadente, nonostante sappia che su di me non ha alcun effetto. Non l’avrebbe fatto nemmeno nella mia vecchia vita, ma lei si divertiva a stuzzicarmi per chissà quale intrinseco motivo. La saluto con un cenno, fissando con insistenza la sua mano vicino al mio collo, tacito invito a mettere qualche centimetro di distanza tra noi.

Lei ride e lo capisco solo dal movimento delle labbra e da come arriccia il naso, il suono che esce dalla sua bocca è più debole della musica attorno a noi. Tergiversiamo, ma sa già che sono lì per qualcosa che mi deve consegnare. La osservo e lei è così rilassata e in forze al mio confronto; il suo padrone la imbottiva di sangue ogni notte, come un infermiere che si assicura che la sacca di flebo del proprio paziente sia sempre piena.

Ne ho conosciuti pochi, come me, e sembrava che solo io vivessi in una situazione di perenne attesa e sofferenza. C’era chi viveva nel lusso e nelle passioni, chi nel timore della morte che mai giungeva, chi passava brevi periodi di astinenza a fronte di lunghe notti di soddisfazione.

Il mio nuovo mondo era misterioso, particolare, in evoluzione. Io ne avevo scrostato solo la superficie. Tutto per lui, che non mi permetteva di andare troppo a fondo. Altri servitori conoscevano segreti a me preclusi, frequentavano luoghi di terrore e potenza.

Qualcuno ci aveva rimesso la pelle, ma anche io e questa donna, ogni giorno o notte che fosse, rasentavamo la sottile linea del rischio.

Non stanotte, gli interessi comuni ci mantenevano in vita.

Lei indossa una collana, il cui ciondolo finisce ben nascosto nell’ampio scollo del vestitino argentato e tempestato di strass. Da far girare la testa, se ti piace quel genere. L’aveva nascosto con cura tra le proprie grazie, e solo quando con lentezza e discrezione me lo mostra, capisco: la catenina in bronzo si congiungeva ad una piccola fiala piena di liquido rosso.

Sento il cuore accelerare, la salivazione aumentare.

Proprio ora?

M’innervosisco e si nota. La donna ride ancora, facendo dondolare l’oggetto del desiderio proprio davanti ai miei occhi. Mi piego in avanti e le stringo con una mano la coscia sinistra, massaggiandola con forza. Su e giù. Dal ginocchio, al muscolo, e ancora più su. Lei chiude gli occhi, ispirando più aria e godendo di un piacere tutto suo. Sincronizzando la mia voce ai suoi respiri le chiedo più volte cosa fosse esattamente, ma aveva istruzioni precise e non doveva rivelare nulla a me.

Lui, tanto, avrebbe capito.

Il giochino tra noi dura poco, dovevamo rientrare entrambi. Con mani tremanti afferro la collana e la metto al sicuro; poi, senza salutare, mi dileguo.

Odiavo vivere in quel buio. Odiavo vivere senza sapere le conseguenze delle mie azioni, senza sapere il significato delle informazioni e degli oggetti che dovevo consegnargli. Prima o poi mi avrebbe messo al corrente?

Mi fermo in una via per osservare la collana.

Cosa se ne faceva di quel poco sangue?

Inspiro e per un attimo mi sembra di sentire un profumo dolce ma intenso che mi acuisce i sensi.

Tremando, lecco la fiala, sperando di sentire in gola un sapore diverso da quello rancido della mia saliva.

Ma nulla. Il dolore, per punizione, mi assale prepotente alla bocca dello stomaco.

Questa volta gli avrei staccato la carne dalle ossa se non mi avesse soddisfatto. Ci sarei riuscito?

Ma è tutto inutile. I miei quesiti si perdevano sempre nell’oscurità dei vicoli che percorrevo.

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Tiziana Valentino

Gruppo letterario Camarilla Italia

www.camarillaitalia.com